Nell’ortografia (dal greco orthòs ‘corretto’ e gràphein ‘scrivere’) rientrano complessivamente i seguenti fatti:
- la rappresentazione alfabetica dei suoni, cioè il modo di rendere con le lettere dell’alfabeto e con il segno dell’accento i suoni del sistema fonologico della lingua;
- altri fatti, come l’uso dell’apostrofo, il taglio delle parole in fine di rigo, l’uso delle maiuscole.
(A cura di Riccardo Cimaglia)
La prima causa di errori ortografici è data dalla non chiara conoscenza del modo di rappresentare alcuni fonemi della nostra lingua con i segni alfabetici tradizionali. Queste difficoltà riguardano soprattutto i fonemi /ɲ/, /k/, /g/, /tʃ/, /dʒ/, /ʃ/, /ʎ/ che possono essere rappresentati con gruppi di lettere o lettere diverse. Per evitare errori in questo settore non si può fare altro che imparare bene le equivalenze tra fonemi e grafie.
Sono comunque da segnalare, come casi di più frequente incertezza, i seguenti:
- il plurale dei nomi femminili in -cia e -gia si scrive con -cie, -gie, o -ce, -ge, a seconda se, prima della c o della g vi sia una vocale (acacia → acacie; ciliegia → ciliegie) o una consonante (guancia → guance; spiaggia → spiagge).
La i, anche se non si pronuncia, si conserva nella grafia delle parole cieco, cielo, scienza, coscienza, già segnalate, e della desinenza della la persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -gnare (lagniamo, disegniamo, ecc.);
- la q si raddoppia con cq (acqua, acquisto), ma fa eccezione soqquadro;
- la diversa grafia cuo e quo non rispecchia assolutamente alcuna differenza di pronuncia, ma è legata soltanto ai precedenti storici delle parole. La grafia quo si conserva nelle poche parole che l’avevano in latino (quota, quotare, quotazione, quoziente, quotidiano, liquore, iniquo), mentre la grafia cuo è delle parole derivate da forme latine in co, che hanno subito la dittongazione di ŏ breve aperta in uo (lat, cŏr → ital. cuore; lat. cŏcere → ital. cuocere; lat. schŏla → ital. scuola). Il consiglio pratico non può essere che questo: ricordare le poche parole con la grafia quo;
- la grafia qua, que, qui è l’unica possibile quando ua, ue, ui rappresentano dittonghi (quale, questo, quindi da pronunciare in sillabe qua-le, questo, quin-di); mentre davanti a ua, ue, ui non dittonghi si usa e (lacuale ‘di lago’, proficue e cui, da pronunciare in sillabe la-cu-a-le, pro-fi-cu-e, cu-i);
- le nasali m e n sono seguite da consonanti di tipo diverso: la m è seguita soltanto dalle bilabiali p e. b (impossibile, impero, imbuto, imbiancare); la n può essere seguita da tutte le altre, escluse p e b (intero, indice, incominciare, inguine, inferno, ecc.);
- il gruppo zi seguito da vocale si pronuncia doppio (/ttsi + voc./), ma si scrive con una sola z (vizio /'vittsio/; stazione /sta'ttsione/);
- la distinzione tra principî (pronunciabile princìpi o princìpii, plurale di principio) e principi (plurale di principe); e così tra osservatorî (da osservatorio) e osservatori (da osservatore), arbitrî (da arbitrio) e arbitri (da arbitro), ecc.;
- la h non corrisponde a nessun suono: si usa per dare valore velare alle lettere c e g e per distinguere alcune voci del verbo avere da altre parole (ho / o; hai / ai; ha / a; hanno / anno).
L’accento grafico è obbligatorio solo sulle parole polisillabiche tronche (cioè ossitone), sui monosillabi tonici che si possono confondere con altri atoni e su già, giù e più.
Si segna abitualmente sulla i (tonica) del suffisso -ìo (tremolìo, calpestìo, ecc., per evitare una lettura come quella di princìpio, òdio, ecc.). Può essere utile segnarlo anche su alcune parole sdrucciole che possono confondersi con altre piane (es. séguito, seguìto).
Molti errori di ortografia dipendono invece dalla pronuncia personale di chi scrive, cioè, in pratica, dalle tendenze regionali di pronuncia. Ad esempio, chi non è abituato a pronunciare i suoni consonantici doppi (come accade a molti parlanti dell’Italia settentrionale) più facilmente è portato a scrivere tuto per tutto, belo per bello, e simili. Al contrario, chi è abituato a pronunciare solo doppie la b e la g (come i parlanti da Roma alla Sicilia), facilmente scriverà subbito per subito, raggione per ragione.
Per tutti questi casi ci sono due «rimedi»:
- rendersi almeno conto delle caratteristiche della propria pronuncia (per modificarla quando e quanto è possibile);
- conoscere la forma scritta delle parole, attraverso un’assidua e attenta lettura.
Il primo rimedio aiuterà l’altro e viceversa.
Altri errori ortografici dipendono esclusivamente dal non conoscere alcune regole puramente convenzionali (cioè non legate a fatti fonici), ma che tuttavia vanno rispettate per la loro utilità pratica.
Si tratta innanzitutto delle regole sull’apostrofo e sul taglio delle parole in fine di rigo. Quest’ultimo caso rientra pienamente nei criteri di divisione in sillabe: la parola, infatti, va tagliata alla fine di una sillaba, e non spezzando una sillaba, per comodità di lettura. Per lo stesso motivo, in fine di rigo si evita di porre una consonante seguita da apostrofo: questo indica che la consonante è legata alla vocale successiva. Dunque, non si taglia nell’/ acqua, ma nel-l’acqua.
Esiste anche l’uso di scrivere nella / acqua, ma è da evitare perché fastidioso nella lettura. C’è oggi anche una certa tendenza di tradizione inglese (ma finora non accettata in Italia) a tagliare le parole come capita (anche nell’/acqua, ne/ll’acqua).
L’uso delle iniziali maiuscole richiede un discorso più lungo. Neanche l’iniziale maiuscola corrisponde a un qualche suono particolare, e perciò la pronuncia non ci aiuta in nessun modo nel ricordarci dove bisogna usarla. Valgono, invece, altri criteri, che possiamo riassumere in tre punti.
L’iniziale maiuscola serve:
- a far riconoscere dove comincia un «nuovo discorso»: dunque, all’inizio di un testo, dopo un segno d’interpunzione forte (punto fermo, punto interrogativo o punto esclamativo) o all’inizio di un discorso diretto (se il discorso diretto contiene più domande o esclamazioni di seguito, dalla seconda in poi si può usare anche l’iniziale minuscola).
- a far riconoscere i nomi propri. In questa categoria rientrano:
- i nomi e cognomi di persona e i nomi di luogo (anche di vie e piazze: Viale della Libertà, Piazza del Duomo);
- i nomi di enti e istituzioni (Ministero del Lavoro; Corte d’Appello; Parlamento; anche Stato e Chiesa, quando si indicano le istituzioni e non il territorio dello stato o l’edificio di una chiesa);
- i titoli di opere, giornali, ecc. (la Divina Commedia; I Promessi Sposi; La Quinta Sinfonia; il «Corriere della Sera»);
- i nomi di alcune festività di rilievo nell’anno (Pasqua, Natale, 1° Maggio), i secoli e i periodi storici (Trecento, Rinascimento, Risorgimento);
- i nomi delle cariche più importanti, che perciò vengono sentite come figure uniche (il Presidente della Repubblica; il Papa, ma solo con riferimento alla persona di un determinato pontefice, altrimenti con la minuscola);
- i nomi degli abitanti di una città, di una regione, di uno stato (i Milanesi, i Siciliani, gli Italiani; ma sempre con la minuscola quando sono aggettivi: i cittadini milanesi, ecc.);
- le personificazioni (Giustizia, Amore, Virtù, ecc.).
- a manifestare rispetto e ossequio. Si distinguono due casi:
- l’uso della iniziale maiuscola nei pronomi e aggettivi possessivi che si riferiscono al destinatario di una lettera, al quale ci si rivolga col lei di cortesia; oltre che per ragioni di cortesia, le iniziali maiuscole in questo caso servono a rendere chiaro il riferimento alla persona del destinatario e non ad altre persone (una frase come Desidero ringraziarla vivamente potrebbe essere ambigua; scrivendo ringraziarLa si rende evidente il riferimento al destinatario);
- l’uso dell’iniziale maiuscola nei pronomi e aggettivi possessivi che si riferiscono a una persona o a una divinità che si voglia sempre nominare, nel testo, con reverenza. Si tratta di un uso puramente reverenziale.
Dal momento che i monosillabi creano molti dubbi ortografici, diamo qui un quadro di essi.
di: preposizione semplice
dì: nome “giorno”
di’: imperativo del verbo dire
da: preposizione semplice
dà: presente indicativo (III persona singolare) di dare
da’: imperativo del verbo dare
fa: III pers. sing. di fare
fa’: imperativo di fare
va: III pers. sing. di andare
va’: imperativo di andare
e: congiunzione
è: presente indicativo (III persona) di essere
e’: forma apocopata arcaica per il pronome ei (egli)
ne: pronome clitico
né: congiunzione
ne’: forma apocopata desueta per la preposizione articolata arcaica nei.
la: articolo / pronome
là: avverbio di luogo
li: pronome
lì: avverbio di luogo
se: congiunzione
sé: pronome
se’: forma apocopata arcaica per sei (II pers. sing. presente indicativo) verbo essere
si: pronome
sì: affermazione
te: pronome
tè: nome “bevanda”
Po: il fiume che scorre a Torino.
po’: poco
Non vogliono l’accento: do (I persona sing. pres. ind. di dare), so (I pers. sing. pres. ind. di sapere), sa (III pers. sing. pres. ind. di sapere), sto (I persona sing. pres. ind. di stare), sta (III pers. sing. di sapere) qui, qua, su (avverbi di luogo – ma lassù), tre (numero – ma ventitré), re (ma I Viceré), gru.
Vogliono l’accento: gli avverbi già, più, giù; la III pers. sing. del presente indicativo di potere può; il dimostrativo ciò.
Tutte le note musicali (do, re, mi, fa, sol, la, si) non hanno accento e non creano obbligo di accento nei loro omografi.
Altri dubbi sono:
-ciente e -cente: si scrivono con la i gli aggettivi sufficiente, insufficiente, efficiente, deficiente. Tutti gli altri senza i: confacente, soddisfacente.
- qual e tal non vogliono mai l’apostrofo: dimmi qual è la tua opinione.
L’articolo determinativo maschile un non vuole mai l’apostrofo davanti a vocale, perché forma tronca: un amico. Stesso comportamento hanno alcuno, nessuno, ciascuno: nessun attore, ciascun alunno (ma al femminile: un’amica, nessun’attrice, ciascun’alunna).
Gruppi di clitici: tranne glielo, gliela, glieli, gliele, gliene, i gruppi di clitici si scrivono sempre staccati: glielo racconterò; ma te lo manderò per posta, non ce la faccio.
Plurali dei nomi in –cia e –gia: vogliono la ì se il gruppo è preceduto da vocale, altrimenti escono in –ce e –ge: guancia → guance, acacia → acacie; spiaggia → spiagge, ciliegia → ciliegie.
Il pronome sé, qualora sia seguito da stesso e medesimo può mantenere l’accento o meno. La tendenza dell’italiano contemporaneo è di mantenere l’accento: sé stesso, sé medesimo.
ATTENZIONE ALLA PRONUNCIA:
persuadére non persuàdere
rubríca non rùbrica
edíle non èdile
salùbre non sàlubre
Fonetica e ortografia