1. La lingua italiana e la cucina

Cucina

L'arte culinaria fu, fin dalle origini, un elemento che contribuì alla formazione dell'identità dell'Italia.  A dimostrazione di questo basti pensare che i primi ricettari, comparsi negli ultimi secoli del Medioevo, pur muovendosi in ambito europeo, riportano delle ricette ad usum Romanorum, ad usum Campanie, definite pugliesi, lombarde, ecc. Inoltre, dal Quattrocento all'Ottocento vi si trovano, in un'ottica comparativa, prodotti legati al territorio (le galline padovane; le carote di Viterbo; i rombi di Ravenna; le sardelle e i carpioni dell'Adda, e così via).

 

I ricettari diventano, così, anche specchio di un'Italia fatta di territori politicamente divisi che comunicavano tra loro in una rete commerciale che permetteva anche lo scambio culturale e linguistico. In questa ottica, la cucina, intesa non solo come arte di preparare ma anche di gustare cibo nutrendosi, diventa punto di incontro, frutto della circolazione di tante realtà locali in un comune circuito di scambi in cui si incontravano usi gastronomici e dialetti differenti. Che l'Italia fosse un Paese da sempre linguisticamente diviso, infatti, emerge chiaro anche dai ricettari.

 

Per esempio, si può pensare al significato che nel Medioevo la parola maccherone ― giunta fino a noi e ancora oggi usata per indicare un tipo di pasta alimentare a sezione rotonda, di varia lunghezza e dimensione ― assumeva a seconda dei diversi ambiti geografici di provenienza: i maccheroni lombardo-veneti erano una sorta di gnocchi; quelli alla napoletana erano simili alle tagliatelle o tagliolini; quelli romaneschi erano simili a cannelloni o cannoncini; quelli siciliani dovevano essere simili ai bucatini; quelli fiorentini del Trecento sono ritenuti comunemente simili agli gnocchi, ma da alcuni studiosi più simili a piccole lasagne.

 

In particolare, che il legame tra lingua, intesa soprattutto come lessico, e cibo potesse diventare funzionale proprio in un'Italia appena unita lo avrebbe dimostrato La Scienza in Cucina (1891) di Pellegrino Artusi, che, per offrire un ricettario comprensibile a tutti gli italiani, optò per il «volgare toscano», traducendo praticamente anche in cucina quell'idea di «unità della lingua parlata, che pochi curavano e molti osteggiavano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti»  (Artusi, La Scienza in cucina, ricetta n. 455 Cacciucco)

1.1. Ricetta del cacciucco, dalla "Scienza in cucina" di Pellegrino Artusi

Cucina

[“CACCIUCCO”, Pellegrino Artusi, Scienza in cucina, ed. 1891, pp. 203-24]

 

288. - Cacciucco

 

Cacciucco! Lasciatemi far due chiacchiere su questa parola la quale forse non è intesa che in Toscana e sulle spiaggie del Mediterraneo, per la ragione che ne’ paesi che costeggiano l’Adriatico è sostituita dalla voce brodetto. A Firenze, invece, il brodetto è una minestra che s’usa per Pasqua d’uova, cioè una zuppa di pane in brodo, legata con uova frullate ed agro di limone. La confusione di questi e simili termini fra provincia e provincia, in Italia, è tale che poco manca a formare una seconda Babele.

 

Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai proprii dialetti.

 

Tornando al cacciucco dirò che questo, naturalmente, è un piatto in uso più che altrove nei porti di mare, ove il pesce si trova fresco e delle specie occorrenti al bisogno. Ogni pescivendolo è in grado d’indicarvi le qualità che meglio si addicono a un buon cacciucco; ma buono quanto si voglia è sempre un cibo assai grave e bisogna guardarsi dal farne una scorpacciata.

 

Per grammi 700 di pesce trinciate fine mezza cipolla e mettetela a soffriggere con olio, prezzemolo e due spicchi d’aglio intero. Appena che la cipolla avrà preso colore aggiungete grammi 300 di pomodoro a pezzi, o conserva, e condite con sale e pepe. Cotti che sieno i pomodori versate sui medesimi un dito d’aceto, se è forte e due se è debole, diluito in un buon bicchier d’acqua. Lasciate bollire ancora per qualche minuto, poi gettate via l’aglio e passate il resto spremendo bene. Rimettete al fuoco il succo passato, insieme col pesce che avrete in pronto come sarebbero, parlando dei più comuni, sogliole, triglie, palombo, ghiozzi, canocchie, che in Toscana chiamansi cicale, ed altre varietà della stagione, lasciando interi i pesci piccoli e tagliando a pezzi i grossi. Assaggiate se sta bene il condimento; ma in ogni caso non sarà male aggiungere un po’ d’olio tenendosi piuttosto scarsi nel soffritto. Giunto il pesce a cottura e fatto il cacciucco, si usa portarlo in tavola in due vassoi separati; in uno il pesce asciutto, nell’altro tante fette di pane, grosse undito, quante ne può intingere il succo che resta.

 

Il pesce, se è fresco, ha l’occhio vivace e lucido; lo ha pallido ed appannato, se non è fresco. Un altro indizio della sua freschezza è il color rosso delle branchie; ma queste potendo essere state colorite ad arte col sangue, toccatele con un dito e portatevelo al naso, l’odore vi farà la spia. Un altro carattere del pesce fresco è la sodezza delle carni, perchè se sta molto nel ghiaccio diventa frollo e morbido al tatto.