Opera lirica

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Il melodramma nasce a Firenze verso il 1600. Ma dalla corte medicea il nuovo genere teatrale subito si allontana per trovare casa presso i Gonzaga di Mantova e a Roma, dove dal 1632 la famiglia Barberini patrocina nel proprio palazzo una stagione di opere spesso su testi confezionati dal letterato pistoiese Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX.

Pensato inizialmente come intrattenimento cortigiano e d’élite, nella Venezia del 1637 il melodramma approda nei teatri pubblici a pagamento, trasformandosi così in teatro popolare e impresa commerciale. È sui palcoscenici veneziani che accanto a intrecci mitologici e pastorali fanno la prima comparsa anche temi storici (capostipite, nel 1643, L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi).
 

Il modello veneziano d’opera si diffonde a macchia d’olio nel resto della penisola. A metà Seicento fiorisce a Napoli quella che sarà, per due secoli, una grande tradizione di respiro sovranazionale. Per tutto il Settecento Napoli è baricentro produttivo del melodramma e dai suoi Conservatori manda musicisti per ogni dove in Europa, tanto che opera napoletana diviene sinonimo di opera italiana.

All'estero, nelle corti e poi nelle sale pubbliche, l’idioma italiano (nel senso di lingua vera e propria, ma pure di codice drammaturgico, di scrittura musicale e di concezione delle vocalità) resta in vigore, sia pur di frequente aggredito, contestato, combattuto, fino al Romanticismo, quando ogni nazione sentirà la necessità di tracciare percorsi melodrammatici autonomi.

 

Ma essere nato in Italia non è affatto indispensabile per far l'operista italiano. Georg Friedrich Händel (1685-1759), per esempio, compone opere serie in lingua italiana nonostante la nascita tedesca e l’impiego inglese. E non è che un caso fra tanti. Altri, ancor più celebri, sono  quelli di Gluck e di Mozart. Né, d'altronde, gli operisti italiani si fossilizzano solo su quel che sanno fare. L'Ottocento registra diversi casi di musicisti emigrati o ospitati a Parigi, allora capitale culturale del mondo, capaci di intonare libretti in francese adottando una scrittura conforme al gusto d'oltralpe, così diverso da quello nostrano: basti pensare a Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi.

La grande stagione del melodramma romantico, quando l'opera italiana comincia a non essere più l'unica colonizzatrice dei palcoscenici internazionali, culmina appunto in Verdi che nel secondo Ottocento domina le scene solitario, inarrivabile. Finché non giunge Giacomo Puccini a portare avanti la tradizione nazionale grazie alla sua sensibilità nello scegliere soggetti emozionanti e nel rivestirli di stoffe timbriche flessuose e avvolgenti, in linea con quanto di più avanzato stava producendo la musica europea.

La morte di Puccini sembra determinare la fine del melodramma. Finisce in effetti l’opera all’italiana, ma non l’opera italiana. Dalle macerie della seconda guerra, ad esempio, spunta fuori un capolavoro come Il  prigioniero (1950) che tratta dell'anelito alla libertà e della sua negazione: ne è autore Luigi Dallapiccola (1904-1975), istriano naturalizzato fiorentino, primo in Italia ad avvalersi del metodo dodecafonico teorizzato dal viennese Arnold Schönberg. E oggi, dopo stagioni di sperimentazione ardua e radicale che hanno sconquassato il teatro musicale dalle fondamenta, sono compositori come Salvatore Sciarrino (1947), Fabio Vacchi (1949) e Giorgio Battistelli (1953) a rinnovare l'attenzione di vaste platee internazionali sulla produzione operistica italiana.

 

(A cura di Gregorio Moppi)

1. Nasce il melodramma

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Atto di nascita ufficiale del melodramma è l’Euridice di Ottavio Rinuccini con la musica di Jacopo Peri – e in parte di Giulio Caccini, che dello stesso testo preparò a tempo di record anche una versione tutta sua per contendere al collega la paternità del nuovo genere – rappresentata in Palazzo Pitti a Firenze il 6 ottobre 1600 durante i festeggiamenti nuziali per Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia.

 

Precursori diretti del melodramma, spettacolo teatrale interamente cantato, vengono considerati intermedi e favole pastorali che alternano danza e pantomima, parola recitata e intonata (a voce sola oppure a più voci secondo lo stile contrappuntistico del madrigale), godendo di enorme favore nelle corti italiane rinascimentali. Gli intermedi, di tema prevalentemente allegorico o mitologico, collocati tra gli atti di commedie o tragedie, fanno spesso uso di effetti speciali stupefacenti, costumi sfarzosi e perfino di profumi diffusi in sala. Le favole pastorali, azioni di soggetto amoroso ambientate in selve idilliache e campi deliziosi, vedono protagonisti pastori, ninfe, divinità agresti propense al canto e al ballo. Nel melodramma confluisce inoltre la riflessione teorica sulla musica dei greci e sul suo impiego nel dramma antico portata avanti negli ultimi decenni del '500 dal circolo di intellettuali riunitosi a Firenze attorno al conte Giovanni Bardi, la cosiddetta Camerata de' Bardi cui apparteneva anche Vincenzio Galilei, padre dello scienziato Galileo.

 

Il melodramma delle origini intende “imitare con il canto chi parla” utilizzando una maniera di canto solistico (monodia) a mezzo fra il parlare ordinario e il cantare vero e proprio. Ciò viene definito recitar cantando, ossia una linea vocale che, modellando la parola con scioltezza e libertà, sorretta da un accompagnamento strumentale discreto (il basso continuo), asseconda l’andamento naturale della parola, le inflessioni e gli accenti dei versi, accrescendone la naturale musicalità e facendone vibrare gli affetti più riposti. Prevalente nelle prime opere, questa maniera di canto diviene presto fastidiosa agli ascoltatori spingendo molti a deprecare il "tedio del recitativo". 

 

Tuttavia arie e duetti vaporosi, squadrati nel passo metrico e nel profilo melodico, a metà Seicento hanno già preso il sopravvento sulla declamazione delle origini. A condurre verso tale esito contribuisce il talento teatrale del compositore cremonese Claudio Monteverdi, pervenuto con l’Orfeo (Palazzo Ducale di Mantova, 1607) a una sintesi magistrale tra splendore scenico e strumentale degli intermedi, recitar cantando fiorentino e stile madrigalistico cinquecentesco. Come accade di frequente nei primi melodrammi, anche il testo di Alessandro Striggio offre a Monteverdi diverse occasioni di realistico far musica in scena: per esempio con il brano “Possente spirto”, esibizione di abilità canora diretta ad ammansire Caronte. Del resto Orfeo è un cantore di professione e non per nulla il melodramma degli esordi si incentra sulla sua figura, emblema della potenza sovrannaturale della musica capace perfino di resuscitare i morti.

2. Opera seria e opera buffa

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Il Settecento è secolo di riforme nel teatro musicale. Si comincia fin dai primi anni, quando gli intrecci ingarbugliati e la mescolanza di tragico e comico caratteristici dei libretti secenteschi vengono abbandonati. Le trame si semplificano, puntano a una maggior verosimiglianza, trattano soggetti classicheggianti sviluppati secondo il criterio aristotelico delle unità di azione e di tempo. Responsabili di questa metamorfosi, che vuole restituire dignità letteraria all’opera in musica anche attraverso una rigorosa regolarizzazione della metrica, sono i poeti Apostolo Zeno (Venezia 1668-1750) e, soprattutto, Pietro Metastasio (Roma 1698 - Vienna 1782).

Metastasio, poeta cesareo alla corte di Vienna per 52 anni, è autore di 27 melodrammi (a partire da Didone abbandonata, 1724) che riscuotono una enorme fortuna europea per tutto il secolo: si calcola che i compositori se ne siano serviti oltre un migliaio di volte.

Il luogo che accoglie l’opera seria di stampo metastasiana è il teatro a palchetti, detto “all’italiana”, tipologia architettonica che si diffonde ovunque nel mondo fino a Novecento inoltrato. I palchetti sono intesi più come appendice del salotto di casa (vi si mangia, si conversa, si fa l’amore) che non per seguire quanto avviene sul palcoscenico. Né, d’altronde, pretende attenzione costante la struttura standardizzata dell’opera seria che alterna recitativi e arie solistiche. I recitativi secchi, privi di qualunque attrattiva musicale, mandano avanti l’azione con il sostegno del clavicembalo o poco più. Nelle arie (perlopiù nella forma “col da capo”, a b a') l’azione si arresta, ma si dispiega il virtuosismo mirabolante dei cantanti, ciò che  al pubblico interessava davvero ascoltare. Esiste una casistica assai varia di arie: di sentimento, di carattere, di mezzo carattere, di bravura, di agilità, di portamento, cantabili, parlanti, declamate, spianate. E ancora, in base alla funzione nel contesto drammatico o alla situazione rappresentata: di pazzia, di sdegno, infuriate, con catene, del sonno, di sortita, di sorbetto (affidate, queste, a personaggi di minor rilievo mentre in sala veniva servito il gelato). Ci sono pure le arie di baule, quelle che i virtuosi si facevano confezionare su misura, portandosele poi sempre appresso per sostituirle all’occorrenza, o secondo il proprio capriccio, a quelle previste dal compositore. Sovrani della scena nell’opera seria sono i castrati, cantanti maschi evirati prima della pubertà per mantenerne acuta la voce.

La comicità, bandita dalle trame riformate di Metastasio, si rifugia tra un atto e l’altro delle opere serie, negli intermezzi: agili soggetti farseschi d’ambientazione contemporanea concepiti per un paio di cantanti-attori che non disdegnano magari di esprimersi in dialetto napoletano. Tra di essi il più noto è La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi data a Napoli nel 1733 fra gli atti del Prigionier superbo dello stesso autore. Vi si racconta di un vecchio scapolo tiranneggiato dalla giovane servetta con cui da ultimo si sposerà. Gli intermezzi si svincolano poco a poco dall’opera seria divenendo spettacolo autonomo. Ha così origine l’opera buffa nella quale non soltanto l’aria solistica acquista dinamicità, ma tende pure a lasciare sempre più spazio a duetti ed episodi concertati, a più voci. Inoltre, grazie alla definizione realistica dei personaggi, vengono a costituirsi tipi psicologici ben definiti (i ruoli), associati alle voci di soprano e basso. A quest’ultimo sono spesso assegnati versi da eseguirsi mitragliando rapidamente le sillabe allo scopo di provocare uno strepitoso effetto comico.

3. La riforma dell'opera italiana (a Vienna)

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A metà Settecento si comincia a invocare da più parti la riforma dell'opera seria di impianto metastasiano ritenuta troppo rigida e stereotipata. Il tentativo più notevole in tale direzione viene compiuto nella Vienna di Maria Teresa grazie alla convergenza d'intenti e alla collaborazione fra quattro teatranti di diversa provenienza geografica, formazione culturale e specializzazione professionale che il conte genovese Giacomo Durazzo, sovrintendente ai teatri di corte della capitale asburgica, ha il fiuto di far lavorare assieme su un progetto drammaturgico comune di integrazione fra arti. Durazzo propone una programmazione rinnovata di opera e danza che risponda alle istanze riformistiche del tempo prendendo principalmente a modello lo spettacolo francese. Questa sua aspirazione giunge a una prima realizzazione nel 1762 con l’opera Orfeo ed Euridice, frutto di un autentico lavoro d'équipe che porta alla creazione di un organismo spettacolare unitario in cui poesia, musica, ballo, movimenti mimici di coro e cantanti sono funzionali al clima generale dell’intreccio.

 

Coinvolti nell’impresa sono il compositore tedesco Christoph Willibald Gluck, il poeta livornese Ranieri de' Calzabigi, il coreografo Gasparo Angiolini, il castrato Gaetano Guadagni. Cresciuto sui libretti di Metastasio e ottimo conoscitore del teatro francese, Calzabigi propugnava un melodramma di passioni grandi ed esemplari, sia pure incardinato su trame semplici, lineari, che si affrancasse dalla concezione edonistica allora imperante. Il fiorentino Angiolini, creatore del balletto d’azione, stava tramutando la danza da arte decorativa basata su figurazioni artificiose in una forma d’espressione tragica. Guadagni, poi, agiva sulla scena con inusuale profondità psicologica, poiché durante il suo soggiorno londinese era stato iniziato alla tecnica della recitazione realistica dal grande attore shakespeariano David Garrick. E Gluck, autore di opere serie italiane di stampo metastasiano e di rimaneggiamenti di opéras-comiques parigine per palati viennesi, possedeva la duttilità intellettuale e il talento necessari a sintetizzare le esperienze proprie e altrui in una partitura di nobiltà neoclassica.

 

Orfeo ed Euridice si presenta dunque come antitesi all’opera  metastasiana. Mira alla semplicità, alla chiarezza, alla brevità. La musica sta a servizio della poesia. Il canto è sillabico e rifiuta o riduce l’ornamentazione. Orchestra e coro sono presenze emozionali forti. Alla giustapposizione di innumerevoli moduli costruiti secondo la formula “recitativo-aria”, si preferisce un’organizzazione formale per arcate vaste. Inoltre il recitativo secco viene bandito in favore di quello accompagnato dall'orchestra, d'effetto più drammatico; soppresse anche le arie col da capo che nel melodramma metastasiano servivano all'esibizione del virtuosismo canoro dei protagonisti.

 

All’Orfeo ed Euridice seguono altre due opere riformate: Alceste (1767, nella cui prefazione dedicata al granduca Pietro Leopoldo di Toscana, Gluck e Calzabigi espongono i caratteri della loro riforma) e Paride ed Elena (1770).

4. Il Don Giovanni (Praga 1787)

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Fosse semplicemente la storia di un erotomane, il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart non continuerebbe tuttora a suscitare interpretazioni della più varia natura, dalla filosofia alla psicanalisi.

L'opera, rappresentata a Praga il 29 ottobre 1787, è frutto della fortunata collaborazione fra il musicista salisburghese e Lorenzo Da Ponte dalla quale sono scaturite anche Le nozze di Figaro (1786) e Così fan tutte (1790). In quegli anni, infatti, Da Ponte era stato nominato da Giuseppe II “poeta dei teatri imperiali”: breve momento di stabilità nella vita romanzesca di questo prete giramondo nato ebreo, donnaiolo impenitente, che terminò la sua lunga vita negli Stati Uniti dove fece mille mestieri tra cui il droghiere, il distillatore di liquori, l'impresario di trasporti e l'insegnante di letteratura italiana nella odierna Columbia University.

 

La prima incarnazione artistica del personaggio di Don Giovanni, seduttore e ingannatore che irride i morti e dunque Dio, risale al dramma El burlador de Sevilla di Tirso de Molina (1630); successivamente è stata declinata innumerevoli volte in teatro, anche da Molière e Goldoni. Ma per il suo Dissoluto punito o sia il Don Giovanni, Da Ponte prende a modello un modesto libretto di pochi mesi prima, il Convitato di pietra confezionato da Giovanni Bertati per il compositore Giuseppe Gazzaniga. Ma il talento drammaturgico di Mozart interviene in maniera poderosa. Perché è appunto la musica che irradia sul testo la potenzialità di interpretazioni multiple e inesauribili che ruotano tutte intorno all'idea di un Don Giovanni libertino non solo in quanto conquistatore di femmine da porre nel suo sterminato catalogo, ma nel senso di difensore del libero pensiero illuminista (“viva la libertà” canta).

 

Del resto Don Giovanni è una partitura ibrida. Il frontespizio la definisce dramma giocoso, in realtà si tratta di una sintesi mirabile fra due generi di teatro musicale, l'opera buffa e l'opera seria, con il camaleontico Don Giovanni capace di cambiare registro espressivo per partecipare ora dell'uno, ora dell'altro aspetto a seconda di quel che più gli è utile in un certo momento. Al mondo della commedia appartengono i personaggi popolari del servo Leporello (che del protagonista è, o vorrebbe essere, riflesso speculare senza però possederne il fascino nero e la tracotanza) o dei contadini Zerlina e Masetto, il cui legame nuziale Don Giovanni vorrebbe scardinare per ottenerne un istante di godimento sessuale. Dal genere serio discendono invece i personaggi aristocratici, tutti solidali contro il libertino: Donna Anna, che cerca vendetta per la tentata violenza e per l’uccisione del padre, il suo promesso sposo Don Ottavio, e Donna Elvira all'inseguimento dell'amante fedifrago che lei però desidera ancora. Tra di loro si erge la grandiosa figura del Commendatore, ammazzato da Don Giovanni appena comincia l'opera; e quando Don Giovanni ne scorge il monumento funebre al cimitero e lo invita per beffa a cena in casa sua, lui (emblema del Padre, reale, simbolico, religioso, e del concetto di limite che al suo nome si lega) ci va davvero, con l'intento di farlo pentire delle sue malefatte e salvarlo così dall’inferno. Inutilmente, perché Don Giovanni preferisce la dannazione eterna, ossia la libertà assoluta di una vita senza altra legge che la propria.

5. La “follia organizzata” di Rossini

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Isabella, italiana bella e astuta in viaggio per mare alla ricerca dell’innamorato Lindoro, è catturata dai pirati insieme al suo cicisbeo Taddeo. Viene portata ad Algeri, alla corte del bey Mustafà che, stanco della moglie, si invaghisce della prigioniera. La quale finge di cedere alle lusinghe del corteggiatore solo perché lì ha ritrovato, ridotto in schiavitù, il fidanzato Lindoro, e con lui ha intenzione di fuggirsene quanto prima. Ovviamente riesce nell’impresa e Mustafà resta con un palmo di naso. Ecco il soggetto dell'Italiana in Algeri di Gioachino Rossini, opera buffa su libretto di Angelo Anelli data a Venezia nel 1813 quando il compositore non aveva che ventuno anni, e già da tre era in carriera. Un’opera che (con le sorelle che la seguono: Il turco in Italia, Milano 1814; Il barbiere di Siviglia, Roma 1816; La Cenerentola, Roma 1817) si distanzia decisamente dalla tradizione buffa napoletana che impazzava per l’Europa. E non solo perché il pesarese Rossini non era napoletano né aveva studiato a Napoli (anche se vi avrebbe lavorato), ma era stato allievo a Bologna di padre Stanislao Mattei, contrappuntista erudito, e si era fatto le ossa anche studiando i lavori di Haydn e Mozart di cui poco l’Italia d’allora si curava.

La differenza tra l’opera buffa rossiniana e quella napoletana non sta nella struttura architettonica (in entrambe i recitativi si alternano ad arie, duetti, concertati) o nell’assetto della trama (gli innamorati devono superare ostacoli prima di poter mettersi insieme). Innovative sono piuttosto l’ energia ritmica e la carica surreale con cui Rossini infiamma l’opera. Il finale del primo atto dell’Italiana ne è dimostrazione esaltante. Tutti i protagonisti si ritrovano sulla scena. Condizione assai caotica perché ciascuno ha un problema da risolvere e riflette tra sé, ma a voce alta, mentre simultaneamente gli altri fanno lo stesso. Cosicché i pensieri dei singoli formano una costruzione a più voci: impossibile distinguere le parole, si sentono solo fonemi cozzare tra loro. Le idee sono confuse. C’è chi sente in testa un campanello fargli din din, chi un cannone fargli bum bum, chi una cornacchia spennata fargli crà crà, chi un martello fargli tac tà. “Follia organizzata”, secondo la definizione di Stendhal. Il meccanismo musicale congegnato da Rossini, l’urto di sillabe deprivate di senso e accavallate alle note, ha spersonalizzato tutti i caratteri tramutandoli in marionette. Quasi un'anticipazione di esperimenti novecenteschi.

E pensare che Rossini, per indole, era tutt’altro che rivoluzionario. In politica temeva l’instabilità e, come tanti colleghi, sapeva assoggettarsi facilmente al regime di turno. Quando nel Risorgimento ne biasimarono lo scarso coinvolgimento patriottico, lui ribatté additando ai maldicenti proprio una pagina dell’Italiana, quella in cui Isabella canta “Pensa alla patria, e intrepido / il tuo dover adempi”. Anche nel canto Rossini prediligeva una tecnica d’antico regime improntata al bello ideale: pura eleganza priva di forzature, emissione levigata, uguale in tutti i registri perfino nei passaggi più virtuosistici. D'altronde considerava la musica, di per sé, asemantica, capace di acquistare significato soltanto nel suo farsi situazione drammatica. Tant’è che un motivo d’effetto comico nel Barbiere di Siviglia scritto per Roma poteva pure essere impiegato, con risultati del tutto opposti, nel momento più tragico del coevo Otello scritto per Napoli.

Perciò quando il gusto del pubblico virò verso vocalità più robuste e sanguigne che sbaragliavano la concezione del belcanto di matrice settecentesca, il compositore preferì ritirarsi dalle scene inorridito da quelle che a lui parevano urla di capponi sgozzati. Era il 1829. Sarebbe morto quasi quarant’anni dopo, uscendo di rado dal silenzio musicale autoimpostosi.

6. L'Ottocento

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Nell’Italia del dopo Rossini l’opera seria tende decisamente a prevalere sull’opera buffa, come mostrano i cataloghi di Vincenzo Bellini (Catania, 1810 – Puteaux, Parigi, 1835), Gaetano Donizetti (Bergamo, 1797-1848), Giuseppe Verdi (Busseto, Parma, 1813 – Milano, 1901) nei cui libretti penetrano soggetti romantici ricavati da Walter Scott, Byron, Schiller, Victor Hugo. Tema dominante è l’esaltazione del sentimento amoroso di un soprano e di un tenore destinati tuttavia alla tragedia perché un baritono vi si mette in mezzo.

Artefice di “melodie lunghe, lunghe, lunghe” (così le descriveva Verdi), eteree, affusolate, sospese su un'orchestra quasi incorporea, Bellini aveva l’ambizione di affermarsi come il primo operista della sua epoca. E ci stava riuscendo, grazie anche al prospero sodalizio con il librettista Felice Romani, se la morte non l’avesse colto troppo giovane dopo il debutto a Parigi dei Puritani su versi del conte Carlo Pepoli, patriota in fuga dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 in Italia.

Donizetti, compositore talmente prolifico da venir malevolmente soprannominato “Dozzinetti”, importa nelle sue partiture la densità sinfonica dello stile viennese di Haydn, Mozart, Beethoven insieme alla esperienze più recenti dell’opera francese. Godette di vasto successo europeo che gli valse la nomina a compositore di corte a Vienna, posto che già era stato di Mozart. Il suo titolo più celebre è Lucia di Lammermoor (Napoli, 1835). Racconta di una fanciulla che perde il senno perché costretta per ragioni politiche a sposare chi non ama. Momento cruciale è la scena della pazzia, nella quale il delirio della protagonista si manifesta in un canto convulso e funambolico che sembra voler oltrepassare i limiti delle possibilità umane. L'autografo napoletano prescrive l'armonica a vetro come accompagnamento di quest’ultima allucinata apparizione di Lucia, ma una tradizione radicata la sostituisce nelle esecuzioni correnti con il flauto.

Verdi, uomo di teatro dalla personalità poderosa, è per mezzo secolo dominatore assoluto delle scene italiane; e anche nel mondo pochissimi possono rivaleggiare con lui, tanto che quando l’Egitto decide di commissionare un’opera che celebri l’inaugurazione del canale di Suez, è lui ad essere prescelto. Nasce così Aida (1871), opera monumentale ambientata  al tempo dei faraoni.

La fortuna internazionale di Verdi inizia con Nabucco, dato alla Scala nel 1842: il coro “Va’ pensiero” diventa emblema del Risorgimento e Verdi gloria dell’Italia unita al pari di Manzoni – la cui fama, però, a differenza di quella del musicista, non varcherà mai i confini nazionali. Secondo la concezione drammaturgica verdiana il compositore è responsabile in tutto della riuscita dell’opera, su cui deve vigilare: dalla genesi dei versi (si sa quanto il musicista tiranneggiasse i suoi librettisti finché non gli fornivano un testo a suo parere soddisfacente) alla messinscena. Da metà secolo Verdi comincia a strutturare i propri melodrammi in grandi campate architettoniche misurate sull’ampiezza di un intero atto o su gran parte di esso. Ne è un esempio La traviata (Venezia, 1853), storia di una prostituta contemporanea che tuttavia, per ragioni di opportunità, nei primi allestimenti dovette essere retrodatata al Settecento.

I princìpi fondanti del teatro verdiano sono la raffigurazione realistica dell’uomo e delle sue passioni (quel che il compositore definiva “inventare il vero”) e la brevità. Conta, cioè, la situazione, l’effetto drammatico immediato prodotto dalla musica; il cuore dell’azione va raggiunto presto, senza troppo perdersi in versificazioni artificiose difficilmente afferrabili dall’uditorio e facendo balzare in evidenza, al momento opportuno, una breve frase, un’esclamazione, una sola parola (la cosiddetta “parola scenica”) che, stagliandosi perentoria e monolitica su tutto il resto, chiarisca immediatamente allo spettatore il senso della scena alla quale sta assistendo.

Verdi apprende dall’amato Shakespeare e da Hugo che il triviale, il grottesco, il comico possono ben convivere con il tragico, e anzi farlo risaltare per contrasto come accade in Macbeth (Firenze, 1847; revisione Parigi, 1865) e Rigoletto (Venezia, 1851), soggetto che gli dette parecchi problemi con la censura a causa del protagonista deforme, buffone di corte che perdipiù progetta l'assassinio del proprio signore, un duca libertino, colpevole di avergli disonorato la figlia.

A ottant'anni Verdi conclude la carriera con Falstaff (Milano, 1893), commedia disincantata il cui insegnamento è che la vita non va presa troppo sul serio. “Tutto nel mondo è burla”, vi si canta infatti alla fine.

7. Cavalleria & Pagliacci: il vero all'opera

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«Musica che sappia di sperma e di caffè», fatta «di gente viva che abbia il nostro sangue nelle vene». Questa frase, ricavata da una lettera del 1912, sintetizza bene come Pietro Mascagni, iniziatore del verismo nell'opera italiana, concepisse il teatro musicale. Un filone inaugurato trent'anni prima da Cavalleria rusticana, successo che il compositore livornese non riuscì più a eguagliare in seguito. Corna, gelosia, ammazzamenti, ambientazione contemporanea in un Mezzogiorno plebeo di passioni elementari e rozza brutalità, un canto esaltato e intemperante al limite del grido, ne costituiscono gli ingredienti principali: esasperazione violenta, aggressiva, selvaggia, di quelle storie d'amore a fine doloroso già al centro del melodramma romantico.

 

Il soggetto di Cavalleria è tratto dall'omonima novella di Giovanni Verga uscita nel 1880 nella raccolta Vita dei campi poi trasformata in un dramma teatrale dato nel 1884 a Torino con la giovane Eleonora Duse protagonista. Mascagni, direttore della banda di Cerignola, in Puglia, ne trasferì in musica l'azione con lo scopo di partecipare al concorso per la composizione di un'opera in un atto attraverso il quale l'editore Sonzogno cercava nuovi talenti in grado di rinvigorire l'ormai infiacchito mercato lirico nazionale. Cavalleria ottenne la vittoria e andò in scena a Roma nel 1890 portando subito fama e denaro all'autore.

 

La storia si svolge in Sicilia. Il contadino Turiddu tradisce l'amante Santuzza con Lola, sua antica fiamma ora maritata con il carrettiere Alfio. Tormentata dalla gelosia, Santuzza si vendica rivelando la tresca ad Alfio, che perciò uccide il rivale. La partitura si apre con Turiddu che intona fuori scena, ancora a sipario chiuso, uno stornello in dialetto siciliano,

tocco di color locale di cui l'opera verista, per sua natura, non può fare a meno, e si chiude con una donna che urla a squarciagola: “Hanno ammazzato compare Turiddu!”. Qui la rinuncia al canto spintona di prepotenza, e inaspettatamente, lo spettatore nella realtà, facendogli quasi dimenticare di trovarsi nella finzione operistica.

 

Tuttavia a offrire il manifesto teorico del melodramma verista non è Mascagni, ma Ruggero Leoncavallo nei suoi Pagliacci rappresentati a Milano nel 1892, di cui firma pure il libretto. Nel Prologo dell'opera si presenta al proscenio il baritono, portavoce dell'autore che dichiara di aver voluto raffigurare nell'opera uno “squarcio di vita”, ritratti di uomini che si amano, si odiano, spasimano di dolore, inveiscono di rabbia e ridono con cinismo come fanno le persone in carne e ossa: perché sola fonte di questo teatro è il vero.

 

Pagliacci prendono origine da un caso di cronaca nera avvenuto nel paese calabrese di Montalto Uffugo su cui si era trovato a lavorare il padre del compositore, magistrato. Una troupe di attori girovaghi giunge al paese dove Nedda, moglie del capocomico Canio, ha un amante, Silvio, con cui progetta di fuggire. Anche il gobbo Tonio, membro della compagnia, desidera Nedda, che invece lo disprezza. Lui allora riferisce a Canio del tradimento della moglie. Durante lo spettacolo di questi commedianti, in cui si inscena proprio un adulterio, Canio uccide Nedda e Silvio davanti al pubblico atterrito. I temi del mascheramento e del teatro nel teatro, dello scambio e della commistione tra finzione e realtà, tra farsa e tragedia, fanno di Pagliacci un'opera pianamente partecipe della cultura europea del tempo. Leoncavallo, musicista-intellettuale raffinato, allievo di Carducci all'università, vi combina linguaggio musicale alto, di derivazione wagneriana, con tratti triviali e salottieri tipici del café-chantant e dell'operetta, mentre la musica in stile settecentesco che accompagna la recita dei comici crea un contrasto straniante con l'efferatezza del duplice omicidio compiuto da Canio.

 

Cavalleria e Pagliacci, oggi spesso programmate in coppia, furono le prime opere a essere registrate integralmente su disco.

8. Turandot: la morte dell'opera

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Turandot di Giacomo Puccini è l’ultimo, vero melodramma della storia. Dopo, certo, il teatro musicale continua a esistere comunque, anche se nella consapevolezza che il cordone ombelicale con una tradizione lunga tre secoli è ormai reciso. Turandot stessa, irrisolta e inconclusa, testimonia la crisi fatale del genere operistico. Puccini (Lucca, 1858 – Bruxelles, 1924) muore per tumore alla gola prima di poterla portare a termine. Ma in che modo completarla, neppure lui l’aveva chiaro.

 

La vicenda, ricavata da una “fiaba teatrale” di Carlo Gozzi datata 1762, racconta di Turandot, principessa cinese che, pur aborrendo gli uomini, ha tuttavia giurato di sposare chi risolva tre indovinelli da lei proposti; in caso di fallimento il pretendente viene decapitato. Innumerevoli giovani ci hanno provato senza successo. Tenta la sorte anche un Principe Ignoto, l'unico che riesce a sciogliere gli enigmi. Turandot però rifiuta di mantenere la promessa. Allora è il Principe a porle un indovinello: scopra il suo nome e potrà ucciderlo, altrimenti dovrà sposarlo. Il finale prevede che sia il Principe in persona a svelarle di chiamarsi Calaf con un bacio ardente che faccia cadere Turandot, vinta dalla passione, nelle sue braccia.

 

Proprio su questo ultimo duetto si arresta la creatività del compositore: rompicapo irrisolvibile per lui, sebbene da sempre cantore sensibile dell’animo femminile, raffigurare in maniera accettabile la mutazione fulminea della protagonista. Puccini costrinse i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni a preparargli ben cinque stesure di questo finale. Desiderava una sorta di trionfo glorioso da rendere in note per mezzo di quel che lui descriveva come “gran frase d’amore con bacio moderno e tutti presi si mettono a lingua in bocca”. Dopodiché, sugli appunti che aveva portato con sé nella clinica di Bruxelles dove tentò una cura estrema al suo male, annotava “e poi Tristano”, evidentemente una suggestione (difficile stabilire come avrebbe dovuto venir sviluppata) da una delle più travolgenti storie d’amore mai messe in musica, Tristano e Isotta di Richard Wagner.

 

È attraverso il sacrificio di Liù che Puccini cerca di giustificare la conversione di Turandot all’amore: la fanciulla schiava di Calaf, e di lui segretamente innamorata, preferisce togliersi la vita piuttosto che svelarne il nome alla principessa che la sta torturando. Ma neanche quest’ultimo atto di sadismo perpetrato dal compositore ai danni di una delle sue eroine riesce a rendere più plausibile il finale lieto. Tanto che l’ispirazione di Puccini si incaglia proprio sulla morte di Liù, incapace di proseguire. Tuttavia, malgrado l’insoluta questione drammaturgica, la partitura è pervasa di gagliarda modernità ritmica, armonica, timbrica. Consola, perlomeno, che il decesso del melodramma avvenga al momento del suo massimo slancio verso l’avanguardia europea.

 

Turandot fu data alla Scala di Milano, incompiuta com’era, il 25 aprile 1926 diretta da Arturo Toscanini. Il compositore Franco Alfano ne venne incaricato del completamento: lavoro onesto che però non ha potuto risolvere il problema lasciato aperto da Puccini. Nel 2001 un nuovo finale è stato commissionato dall’editore Ricordi a Luciano Berio.

9. Al di là del melodramma

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L’evoluzione della musica scenica nell’ultimo sessantennio è contraddistinta, nel mondo, da una pluralità di tendenze contrastanti, riflesso allo stesso tempo delle inquietudini e dei malesseri sociali, politici, artistici d’oggi, ma anche segno della sostanziale vitalità dell’opera, genere che dopo gli anni Venti, all’indomani della Turandot di Puccini, in molti davano per spacciato e che invece, rinnovato soprattutto in contenuti e meccanismi (per esempio partiture concepite per la radio o per contesti multimediali), continua a parlare alla contemporaneità.

In Italia, soprattutto con Luciano Berio (1925-2003) e Sylvano Bussotti (nato nel 1931), si è assistito alla teatralizzazione della musica strumentale e del canto da camera, la cui realizzazione trascende la compostezza del concerto tradizionale mutandosi in performance gestuale che mette in gioco anche la fisicità dell’esecutore, magari fiancheggiato da oggetti o da suoni elettronici. In ambito specificamente scenico, poi, c’è chi prosegue nella formulazione di un teatro narrativo; chi, come Berio, indifferente agli intrecci tradizionali, si è interessato piuttosto alla divaricazione dei piani prospettici e al rapporto instabile tra musica, testo, azione; e chi, come Luigi Nono (1924-90), ha portato avanti con ostinazione l’idea di un teatro d’avanguardia in funzione politica.

 

Salvatore Sciarrino, nato nel 1947, persegue invece l'idea di un teatro antiretorico che trasporti lo spettatore in un altrove magico entro cui possa tuttavia immedesimarsi. Ciò deve avvenire grazie alla formulazione di una musica naturale (che il compositore siciliano chiama anche ecologica o biologica) da ascoltare come si ascoltano i suoni della natura quando ci troviamo sdraiati su un prato: un affinamento della percezione acustica capace di trasformare ogni più piccolo evento sonoro in rivelazione estatica emersa dal silenzio. E il canto, in tale contesto, si fa sismografo espressivo di ogni minuta vibrazione psicologica dei personaggi. Ne è un esempio l'opera Luci mie traditrici rappresentata la prima volta a Schwetzingen nel 1998. Come libretto, Sciarrino utilizza un testo teatrale di Giacinto Andrea Cicognini, Il tradimento per l'onore (1664), prosciugato però al massimo grado nella struttura, nell'azione, nei dialoghi. All'origine di questa pièce barocca vi è un fatto di sangue avvenuto nel 1590, protagonista il musicista Carlo Gesualdo, principe di Venosa, che uccise l'amatissima moglie Maria d'Avalos e l'amante di lei scoperti in flagranza d'adulterio.  

I quattro personaggi dell'opera (il Malaspina, la Malaspina, l'Ospite, il Servo) sono serrati all'interno di uno spazio claustrofobico, dove alla quasi assenza d'azione si contrappone una estrema mobilità del tessuto musicale e un'attenzione convulsa alla sottolineatura artificiosa della parola. Che si arrotola su se stessa in geometrie complesse, si riversa a cascata tra una nota e l'altra, si trasfigura in soffio o si sviluppa in una specie di recitar cantando che pare modellarsi su stoffa plissettata. E dalla parola fiorisce il suono, e la fascia di un alone di timbri mutevoli, impalpabili, tendenti a ripiegarsi in un'interiorità dolorosa, tanto da sembrare fantasmi più che entità concrete.

Bibliografia

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