Approfondimento: italiano di Dante e italiano di oggi

Storia linguistica d'Italia

La continuità sostanziale tra l'italiano di Dante e l'italiano di oggi è certa, ma gli elementi di differenziazione ci sono e non sono pochi. Tra le altre cose, l’italiano ha progressivamente ridotto la polimorfia, vale a dire la coesistenza, all’interno del sistema, di forme (soprattutto nei paradigmi dei verbi, dei nomi e dei pronomi) tra loro diverse ma di valore equivalente, che fin dal Medioevo caratterizzava la nostra lingua letteraria (Ghinassi 2007; Coletti 2012). È vero che la maggioranza delle parole che costituiscono il “lessico fondamentale” dell’italiano di oggi sono presenti già in Dante: «Quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo al 90%» (De Mauro, 1999: 1166). Tuttavia, molte parole documentate fin dalle origini hanno acquisito nel corso dei secoli un significato alquanto diverso; altre parole un tempo vitali e frequenti sono diventate arcaiche e rare o sono state sostituite da altre (a volte di diversa provenienza dialettale). Molti derivati e composti e perfino alcuni odierni meccanismi di derivazione e di composizione non esistevano nel Trecento. Notevoli trasformazioni si sono avute anche nel campo delle congiunzioni e delle locuzioni congiuntive, dove sono frequenti i casi di grammaticalizzazione e di passaggi dall’uso frasale a quello testuale.

 

Visto che parliamo dell’italiano dell’età di Dante, sarebbe bello poter descrivere direttamente l’uso personale del poeta: purtroppo, però, di nessuna delle sue opere (latine e volgari) possediamo autografi (Ciociola 2001: 139; Tavoni 2010: 334) e quindi non siamo in grado di ricostruire con sicurezza la  sua lingua.  Non c’è alcun dubbio che la Commedia sia stata scritta in fiorentino (pur con l’innesto di voci e forme tratte dagli altri volgari dell’epoca), ma – nel mare magnum dei manoscritti che ci hanno conservato l’opera – non è possibile risalire al dettato dantesco, almeno per quanto riguarda la sua veste formale: «non solo niente si può dire della fisionomia grafica del testo, ma anche l’originario aspetto fonomorfologico resta in parte occultato e non può essere oggetto di conclusioni libere da sospetti» (Manni 2003: 139); soltanto «ciò che [è] garantito dalla rima, risale di sicuro all’originale» (Stussi 2001: 334).

 

Nonostante queste incertezze, è possibile tracciare un breve profilo della lingua della Commedia  (Parodi 1896; Ambrosini 1978; Manni 2003) e lo faremo, sia per indicare i tratti di differenziazione dall’italiano di oggi, sia per segnalare alcune particolarità spiccate del fiorentino due-trecentesco (su cui cfr. soprattutto Castellani 1952: 21-166; Manni 2003: 34-41) e anche alcune specificità dantesche, legate a quello che è stato definito il “plurilinguismo” dell’opera.

 

È importante precisare che il testo della Commedia a cui si fa tuttora riferimento è quello dell’edizione critica predisposta nel 1966-1967 (e riveduta nel 1994) da Giorgio Petrocchi. Questa si basa sui 27 manoscritti anteriori al 1355, tra i quali, sul piano linguistico, è stato considerato dall’editore particolarmente affidabile il codice Trivulziano 1080, il cui copista, Francesco di ser Nardo, originario di Barberino di Val d’Elsa, aveva a Firenze una bottega specializzata appunto nella trascrizione del poema dantesco. È un codice «testimone di una fiorentinità più tarda e probabilmente non immune da interferenze di contado» (Manni 2003: 138), scelto anche da un altro editore (Antonio Lanza, nel 1996), mentre un’altra edizione (di Federico Sanguineti, del 2001) valorizza il manoscritto Urbinate lat. 366, la cui veste linguistica, però, è emiliano-romagnola.

 

(A cura di Paolo D'Achille)

Grafia

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Come si è detto, l’aspetto grafico dell’opera dantesca è quello che ci sfugge maggiormente. Possiamo però notare che, almeno nella forma in cui il poema ci è stato tramandato, le grafie latineggianti risultano nel complesso contenute, molto più contenute rispetto a quelle che si trovano in Petrarca (il cui Canzonier, ci è pervenuto nell’autografo).

 

Petrarca ricorre spesso all’h- etimologica (huom, honore), usa ti, ci in voci come gratia, giudicio, mantiene i nessi -x-, -ct-, -nct-, -pt-, -mpt- (facto, sancto, rapto, ecc.) e opta anche per grafie grecizzanti come th, ph, y (Manni 2003: 194; cfr. anche Maraschio 1993: 165-167). La grafia della Commedia è invece più conforme agli usi grafici antietimologici che si trovano nelle scritture dei mercanti toscani e che la tradizione italiana successiva (grazie soprattutto al modello fornito prima dal Bembo e poi soprattutto dal Vocabolario della Crusca) avrebbe nuovamente adottato, preferendoli alla moda etimologizzante del periodo umanistico (che fu invece accolta in francese; Sabatini 2004). Da questo punto di vista, dunque, il poema dantesco (ma, più in generale, lo stesso fiorentino delle cronache, dei libri dei conti, dei volgarizzamenti, ecc.) appare pienamente “moderno”, a parte qualche particolarità (per es., la resa con -sci- della sibilante palatale sorda di grado tenue come in basciò, documentata tuttora a Firenze, ma poi scomparsa nella pronuncia dell’italiano, per effetto della grafia -ci- che ha influito sulla pronuncia; Loporcaro 2006).

 

Varie divergenze rispetto allo standard attuale (ma non alla lingua poetica posteriore; Serianni 2009: 76ss.) si hanno nell’uso delle doppie, a volte scempiate per influsso del latino (femina, ecc.), a volte presenti là dove l’italiano di oggi prevede la scempia (etterno). I testi antichi rendono spesso graficamente il raddoppiamento fonosintattico che prevede, in determinate condizioni (per lo più dopo monosillabi forti e parole tronche), la pronuncia come intensa di una consonante a inizio di parola: a casa è pronunciato [a'k:a:sa] e pertanto scritto anticamente accasa, grafia resa nelle edizioni filologiche moderne come a·ccasa.


Naturalmente (come risulta dall’esempio appena citato), la divisione delle parole, l’uso delle maiuscole, i segni di punteggiatura, come pure gli apostrofi e gli accenti che troviamo nelle edizioni dei testi antichi sono dovuti agli editori moderni e sono in parte condizionati alle loro interpretazioni del testo. Così, per es., al v. 3 del canto I dell’Inferno l’ed. Petrocchi reca «ché la diritta via era smarrita», con il ché accentato, interpretato come congiunzione causale (‘perché’); ma potrebbe trattarsi anche di un che “polivalente”, la cui funzione grammaticale «è quella di una relazione generica, nella quale prevale ora il dato modale, ora quello spaziale, ora quello temporale; ed è certo un dato della lingua parlata popolare» (Pagliaro 1961; 198). In effetti l’ed. Sanguineti opta per che (cfr. anche Manni 2003: 170-171).

Fonetica

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Nel vocalismo tonico, il sistema del fiorentino trecentesco, come quello dell’italiano standard di oggi, presenta sette vocali, con la distinzione tra le e e le o medio-alte e medio-basse. Il grado di apertura delle e e delle o all’epoca di Dante non è, ovviamente, ricostruibile, vista la mancata distinzione grafica tra i due foni, ma in molti casi non può che coincidere con la pronuncia attuale dello standard di base toscana. Sicuramente, rispetto a questo, il fiorentino all’epoca di Dante presentava qualche particolarità: sappiamo con certezza, per es., che la vocale della congiunzione e e della preposizione per era allora aperta (coerentemente con la derivazione da ĕ latina) e si sarebbe chiusa successivamente: di fatto, nella catena fonica quelle parole non vengono mai accentate e dunque le vocali sono state trattate come se fossero atone e le vocali atone sono sempre chiuse. Conforme al vocalismo tonico fiorentino (e italiano) è anche la presenza dei dittonghi ascendenti in sillaba aperta (uomo, piede). A tal proposito, però, è possibile indicare almeno tre particolarità della lingua del tempo:

 

1) il dittongo è presente, se pure in alternanza con le forme monottongate, anche in contesti dove successivamente sarebbe stato completamente riassorbito, e cioè sia dopo consonante + r (priego, truovo), sia in qualche altra forma verbale, come niego ‘nego’ o rispuose;

 

2) per influsso concomitante del latino, del provenzale e del siciliano, Dante (come poi la tradizione poetica posteriore; Serianni 2009: 56-62) evita il dittongo in alcune parole: omo, core, foco, loco, fera, vene, ecc.; anche qui, però, nel poema le forme non dittongate si alternano con quelle dittongate, che sembrano nel complesso prevalenti;

 

3) vige, sostanzialmente, la regola del “dittongo mobile”, per cui, per es. nei paradigmi verbali, il dittongo si ha nella vocale tonica, ma non è mantenuto quando l’accento si sposta e quindi la vocale diventa atona; così si ha suona («il bel paese là dove ’l sì suona»; If  XXXIII, 80), ma sonare («non pur per lo sonar delle parole»; Pg XIII, 65).  

 

Altra particolarità del fiorentino trecentesco documentata pure in Dante è la presenza di e tonica in iato nei congiuntivi dea e stea (e non dia e stia; alla III pers. pl., però, nella Commedia abbiamo dieno e stieno).

 

Un problema non solo linguistico, ma anche filologico, è costituito dalla presenza di Dante di rime imperfette come lume in rima con come e nome e voi o noi (in rima con fui e sui); queste forme sono state accolte nell’edizione Petrocchi perché considerate rime “siciliane”, ammesse nella poesia antica sul modello dei testi della scuola siciliana, che presentavano talvolta rime del genere nelle versioni toscanizzate tramandate dai copisti (negli originali vigeva invece la rima perfetta, grazie al diverso sistema vocalico del siciliano); Castellani (2000: 517-524) ritiene però lecito ristabilire le rime perfette anche in questi casi, dove Dante sfrutterebbe «alternative fonomorfologiche presenti nell’uso toscano dell’epoca […] oppure suggerite dalla tradizione letteraria» (Manni 2003: 140).

 

Naturalmente, alcune differenze rispetto allo standard posteriore, e che ritroviamo nei testi letterari, specie poetici, si spiegano come latinismi (è il caso di licito, vulgo, auro e laude: Serianni 2009: 47-55) oppure come gallicismi: sono tali, nel poema dantesco, le i al posto di e in dispitto (nel canto di Farinata) e respitto, entrambe garantite dalla rima.

 

Nel vocalismo atono, pur nella tendenza a chiudere in i la e protonica (anche in fonosintassi), tratto tipico del fiorentino passato all’italiano, ci sono casi di conservazione (segnore ‘signore’, nepote ‘nipote’); molte alternanze (sia tra i ed e, sia anche tra o e u) sono dovute al condizionamento del latino  (così virtù accanto a vertù, littera a lettera, populo a popolo, occidere a uccidere), che spiega pure le numerose oscillazioni tra i prefissi de-/di- e re-/ri- (che caratterizzano tuttora l’italiano). Inoltre, sempre in protonia (anche sintattica) è documentato ancora nel Trecento l’esito en > an (sanese ‘senese’, sanza ‘senza’), mentre la vocale finale di vari avverbi è -e e non -i (dimane, stamane); lo stesso vale per diece ‘dieci’. Se molti di questi esiti nella Commedia sono garantiti dalla rima (che legittima pure le alternanze tra fore e fori) è più dubbia la scelta dantesca tra ogne e ogni, forme all’epoca ancora in concorrenza e attestate entrambe nel poema solo all’interno del verso.

 

Ancora più ridotte sono le particolarità del consonantismo, in cui lingua dantesca, fiorentino trecentesco e italiano standard sostanzialmente convergono. Si è già fatto cenno alla fricativa palatale sorda tenue (< lat. sj) in bascio; certamente posteriore a Dante è la pronuncia come tale anche dell’affricata intervocalica in pace, diece, ecc. (le cui grafie, infatti, sono costantemente con c(i)). Che già all’epoca di Dante le occlusive intervocaliche sorde fossero a Firenze pronunciate spirantizzate (la cosiddetta “gorgia” toscana) è un problema molto dibattuto e comunque non desumibile dalle grafie dei testi dell’epoca (Serianni 1995: 137).

 

Invece un tratto in cui si è avuto certamente un cambiamento nel tempo è l’esito del nesso lat. gl, che nel fiorentino dell’epoca di Dante è sistematicamente [ggj] anche all’interno di parola: tegghia, vegghiare e non teglia, vegliare, come si sarebbe avuto in seguito, probabilmente per reazione alla pronuncia popolare di figlio come figghio. Il nesso lat. -ng- sviluppa la nasale palatale («Vieni a veder la tua Roma, che piagne / vedova e sola»; Pg VI, 112), che è poi l’esito originario fiorentino; ma già anticamente sono documentate pure le forme con -ng-, che anzi nella Commedia sono prevalenti («quella che piange dal destro è Aletto»; If IX 47); analogamente, dal lat. -x- si ha a volte la sibilante alveolare intensa anche dove ha poi prevalso la sibilante palatale, come in lassa («Fama di loro il mondo esser non lassa »; If III, 49; in rima con bassa e passa) accanto a lascia («Lascia parlare a me»; If XXXIII, 44).

 

Si ha poi la sonorizzazione della t intervocalica nel suffisso -tore (costante in Dante è la forma imperadore) e nei nomi astratti come beltade, virtude (documentati accanto a beltate, virtute); altre sonorizzazioni estranee al tipo autenticamente toscano ma diffuse nella lingua dell’epoca di Dante (e nella stessa Commedia) sono sovra ‘sopra’, nodrire ‘nutrire’, savere ‘sapere’. Qualche ulteriore, isolato caso di sonorizzazione, come sego ‘seco’ e figo ‘fico’ (entrambe le forme sono garantite dalla rima), si può invece spiegare come intenzionale settentrionalismo, usato forse con funzione mimetica (Manni 2003: 144), mentre varie alternanze tra sorde e sonore intervocaliche (o tra vocale e r) sono dovute all’opzione ora per la forma popolare toscana (e settentrionale), ora per quella latineggiante (così padre e patre, lido e lito, lago e laco); analoga spiegazione hanno opposizioni come iudicare/giudicare, ecc.  

 

Infine, nell’italiano antico sono molto estesi (più di quanto lo siano nell’italiano moderno) i troncamenti, possibili anche in ver ‘verso’, me’ ‘meglio’, ecc. Anche le elisioni sono molto più frequenti che non nell’italiano standard posteriore (si elidono anche gli articoli plurali le e li) e lo stesso vale per le aferesi: l’articolo determinativo maschile il si può ridurre a ’l; del resto, nel fiorentino coevo, l’aferesi della i in parole inizianti con im- o in- era preferita all’elisione della vocale finale dell’articolo lo, come in allo ’ntelletto (esempio del Convivio dantesco; Bruni 2007: 44). Il fiorentino del Trecento (e lo stesso Dante) preferisce forme non sincopate come vespero invece di vespro, opera per opra, ecc. (ma nella Commedia le sincopi non mancano affatto, anche per esigenze metriche) e ancora in comperare, sofferire, diritto ‘dritto’. La sincope non avviene in molti avverbi in -mente formati con aggettivi proparossitoni uscenti in -le, come similemente.

Morfologia

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Sul piano morfologico, la lingua di Dante mostra una notevole polimorfia, presentando forme diverse che hanno lo stesso valore grammaticale.

 

Nella morfologia nominale, è da segnalare anzitutto la presenza di voci tratte dai nominativi latini, come draco ‘dragone’, scorpio ‘scorpione’, sermo ‘sermone’ (e anche nomi propri, maschili, come Plato, e femminili, come Dido); in Dante accanto a imagine («l’imagini di tante umilitadi»; Pg X, 98) si trovano imago («fecer malie con erbe e con imago»; If XX, 123) e  image («usciva solo un suon di quella image»; Pd XIX, 21) e re («il re de l’universo»; If V 91) si alterna a rege («il sommo rege»; Pg XXI, 83). Accanto a nomi maschili in -o con i plurali femminili in -a, all’epoca più numerosi che nell’italiano di oggi («con piene le pugna» ‘i pugni’ If VI, 26; e ancora le anella, le castella, ecc.), abbiamo anche plurali femminili in -ora (come ramora, plurale di ramo, accanto a rami: «s’innovò la pianta / che prima avea le ramora sì sole»; Pg XXXII 59-60).

 

Per gli articoli determinativi, c’è da ricordare anzitutto la presenza del plurale maschile li accanto alla forma palatalizzata gli, che è documentata in Dante, per es., nell’espressione, poi divenuta proverbiale, per li rami (Pg VII 121). L’alternanza tra il (anche ridotto a ’l) e lo non rispetta le regole dell’italiano di oggi, ma avviene in base alla cosiddetta “norma Gröber” (dal nome dello studioso che per primo la individuò): lo (come pure i plurali li e gli) si usa all’inizio di frase o di verso («Lo buon maestro “Acciò che non si paia / che tu ci sia”, mi disse»; If XXI 58-59) o dopo parola terminante per consonante («Non isperate mai veder lo cielo»; If III 85; quest’uso è rimasto cristallizzato nelle due espressioni avverbiali perlopiù  e perlomeno dell’italiano moderno); il (o ’l, come pure il plurale i) dopo parola terminante per vocale («L’Amor che move il Sole e l’altre stelle»; Pd XXIII 145).

 

Nelle preposizioni articolate, il fiorentino all’epoca di Dante aveva ormai generalizzato in tutte le posizioni (non solo prima di parola iniziante per vocale accentata) le doppie (dello, nella, ecc, e non delo, nela, ecc.). Tuttavia il testo dantesco non solo presenta sistematicamente (almeno nell’edizione Petrocchi) scrizioni analitiche come de le, ecc., ma in un caso ne lo (a fine verso, con successivo enjambement) è in rima con cielo e candelo (Pd XI, 13) e in un altro ne la rima con vela e cela (Pg XVII 55), il che fa pensare che Dante adottasse intenzionalmente un uso fiorentino arcaico, quando la pronuncia intensa della laterale non si era ancora stabilizzata.

 

Tra i pronomi personali, io si riduce spesso a i’; accanto a egli, figurano anche elli, e le forme ridotte ei ed e’, che si usano anche per i plurali (Boström 1972); il clitico oggetto indiretto di III pers. sing. è li, oltre che gli (ed è normalmente usato anche per il femminile, accanto a le, e per il plurale, accanto a loro), mentre per l’oggetto diretto maschile si alternano (con le stesse regole dell’articolo) il e lo; per il clitico di I pers. pl., accanto a ci («Caina attende chi a vita ci spense»; If V 107) si ha anche ne («Tu ne vestisti queste misere carni»; If XXXIII 62), derivato dal lat. inde (Loporcaro 1995). Nell’italiano trecentesco sono diffuse (e lo rimarranno ancora per secoli, anche nel parlato toscano) le forme meco, teco, seco (sing. e pl.) e anche nosco ‘con noi’ e vosco ‘con voi’. Per i possessivi, l’italiano antico ha la possibilità (rimasta poi solo nei dialetti meridionali) di servirsi di forme clitiche posposte a nomi prevalentemente di parentela (fratelmo ‘mio fratello’ e mogliata/moglieta ‘tua moglie’ in Boccaccio; signorso ‘il suo padrone’ in Dante, ecc.)     

 

Per quanto riguarda i dimostrativi, da segnalare la presenza dell’aggettivo esto (lat. ĭstum) accanto a questo («esta selva selvaggia»; If I, 5) e del pronome/aggettivo cotesto/codesto, la cui diffusione, nell’italiano di oggi, è molto ridotta fuori di Toscana. Tra gli indefiniti, altrui ha non solo il valore, etimologico, di oggetto indiretto ‘a un altro, ad altri’ («ch’io la veggia e ch’i’ la mostri altrui»; Pg XVI, 62), ma anche quello di oggetto diretto ‘un altro, altri’ («pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle»; If I, 18), di soggetto di una infinitiva dipendente da verbi modali («non lascia altrui passar per la sua via»; If I, 95), di complemento di specificazione ‘di un altro, di altri’ («Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui»; Pd  XVII 58-59). Da segnalare anche niuno, a lungo preferito in prosa a nessuno, e veruno.

 

Tra i numerali, oltre al citato diece, vanno ricordate le forme duo (in poesia), dicessette, dicennove, dugento, milia, rimaste ancora a lungo vitali.  

 

I paradigmi verbali sono molto complessi, nel senso che la polimorfia è qui particolarmente abbondante. I tratti principali che caratterizzano il fiorentino dell’età di Dante rispetto allo standard attuale sono i seguenti:

 

1) specie nella I pers. del presente indicativo e nel congiuntivo, l’uso trecentesco offre forme che presentano la normale evoluzione fonetica e che successivamente sono state sostituite da quelle analogiche al resto del paradigma, rimanendo confinate nella lingua poetica per poi uscire dall’uso: così veggio (e veggo), chieggio (e chieggo), caggia, attestato in Dante accanto a cada; nel verbo avere, al presente, oltre a ho, Dante usa anche aggio (così come, al congiuntivo, aggi, aggia e anche aia e all’imperativo aggi) e, isolatamente, la forma aretina abbo (If XXXII 5, in rima con gabbo e babbo); accanto a può, sempre in Dante, si hanno anche puote, pote e po’;

 

2) al passato remoto ebbi si può ridurre a èi;

 

3) il verbo essere presenta al futuro, accanto a sarò, anche fia, fiano (con le varianti fie e fieno), che può avere anche il valore di congiuntivo presente;

 

4) notevoli le alternanze nelle forme del passato remoto: accanto a  vidi c’è anche viddi, a tacqui si alterna tacetti;

 

5) la II pers. sing. del presente indicativo di essere è e non sei; le edizioni dei testi antichi hanno sempre reso la forma con se’ pensando a una riduzione del dittongo, fino al definitivo chiarimento di Castellani (1999), il quale ha dimostrato che la i fu introdotta posteriormente;

 

6) la II pers. sing. del presente indicativo dei verbi della I coniugazione esce ancora in -e oltre che in -i (guarde, pense);

 

7) la I pers. pl. del presente indicativo è in -iamo per tutte le classi verbali, come nello standard di oggi (è questo uno dei tratti che rivela la “fiorentinità” dell’italiano), ma non mancano affatto nei testi dell’epoca (in Dante e anche in Petrarca, dove anzi sono esclusive) le desinenze originarie, in  particolare -emo per verbi della II coniugazione (solemo, vedemo, volemo);

 

8) la I pers. sing. dell’imperfetto indicativo esce in -a (io amava); l’uscita in -o, analogica al presente, si diffuse a Firenze solo posteriormente a Dante e si affermò in italiano solo nell’Ottocento, anche grazie a Manzoni;

 

9) nello stesso tempo, nei verbi della II e della III coniugazione si alternano forme con -v- (diceva, sentiva) e forme con dileguo della consonante (dicea, sentia); in Dante la terminazione in -ia si registra anche in verbi della II coniugazione (avia) e nelle forme di III pers. sing. e pl. seguite da pronomi clitici -ia passa a -ie (potiesi ‘si poteva’; facieno ‘facevano’); il fenomeno, del resto, avviene anche in altre forme verbali, come il presente congiuntivo (fieno, sieno e già citati dieno e stieno);

 

10) le III pers. sing. del passato remoto “debole” (cioè accentato sulle desinenze) dei verbi della II e III coniugazione presentano ancora le desinenze -eo, -io accanto a , (poteo accanto a poté, appario accanto ad apparì);

 

11) particolarmente ricca è la polimorfia delle III pers. pl. del passato remoto (Nencioni 1953-1954); nelle forme “deboli” le desinenze -aro, -ero, -iro (poetaro, potero, udiro) si alternano a quelle, analogiche al presente, in -arono, -erono, -irono (queste ultime in Dante non compaiono mai in rima e sono sempre apocopate: ammiraron, udiron); occasionalmente, nei verbi della I classe in Dante si ha anche la desinenza sincopata -arno (portarno, in rima); nelle forme “forti” (così come nelle forme dell’imperfetto congiuntivo e del condizionale) prevale invece l’uscita etimologica in -ero (dissero), ma si hanno anche forme in -ono, sempre modellate sul presente, come dissono ‘dissero’ oppure in -oro (ebboro);

 

12) la II pers. sing. del presente congiuntivo dei verbi della II e III coniugazione può essere ancora in -e (diche, intende), oltre che in -i (abbi, facci, credi, eschi) e in -a (faccia, goda);

 

13) la I pers. sing. dell’imperfetto congiuntivo è in -e oltre che in -i (io fosse, io posasse);

 

14) la I e la II pers. pl. dell’imperfetto possono presentare le desinenze assimilate -avamo-avate anche nei verbi della II classe (avavamo, credavate, «Noi leggiavamo un giorno per diletto», If V 127).

 

I testi letterari dal Duecento in poi, e in particolare la Commedia dantesca, accolgono inoltre anche forme verbali non fiorentine, di cui quelle più significative sono le seguenti:

-  accanto al condizionale in -ei (vorrei) si ha la forma in -ia (vorria), di tradizione siciliana (ma diffusa anche in area mediana e nella Toscana orientale), particolarmente frequente nella III pers. pl. (avrien ‘avrebbero’); nel caso del verbo essere, oltre a sarebbe e a saria, si trova anche la forma fora, derivata dal piuccheperfetto latino e anch’essa di ascendenza siciliana;

-  nel presente indicativo, la III pers. pl. può presentare la terminazione in -eno (facen ‘fanno’), oppure la semplice aggiunta di -no alla forma di III pers. sing. (ènno ‘sono’, ponno ‘possono’);

- anche nel passato remoto indicativo ci sono forme della III pers. pl. formate con la semplice aggiunta di -no alla III pers. sing. (apparinno, terminonno ‘terminarono’, dienno ‘diedero’, fenno ‘fecero’, documentato accanto a fero e feron).

Sintassi

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Dal punto di vista sintattico, sono molte le differenze tra italiano antico e italiano moderno per quanto riguarda l’ordine delle parole, l’uso degli articoli e dei pronomi, le congiunzioni, le reggenze e gli accordi verbali; al riguardo, va segnalato che, se un soggetto plurale che si caratterizza testualmente come “nuovo” segue il verbo, questo può rimanere al singolare (Brambilla Ageno 1964; un esempio dal Convivio dantesco, 4.19.5: «riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi»).

 

Le particolarità più rilevanti riguardano i pronomi atoni (o clitici) e la loro posizione all’interno della frase. Nell’italiano antico vige infatti la cosiddetta “legge Tobler-Mussafia” (dal nome dei due studiosi che la individuarono per primi), che prevede che i clitici non possano trovarsi all’inizio di periodo, dopo le congiunzioni e e ma e all’inizio di una frase principale posposta alla subordinata: la legge è rispettata anche nella Commedia, dove abbiamo, per es.: «Rispuosemi: “Non omo, omo già fui”» (If I 67); «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole» (If III 95-96); «Però che ciascun meco si convene / nel nome che sonò la voce sola, / fannomi onore» (If IV 91-92); «Se tu riguardi ben questa sentenza / e rechiti a la mente chi son quelli» (If XI, 85-86); «come fa l’uom che non s’affigge / ma vassi a la via sua» (Pg XXV, 4-5). Non mancano però eccezioni, specie negli ultimi tre casi, né in Dante né in altri testi coevi. La regola vale anche per l’imperativo, dove oggi l’enclisi si è generalizzata, mentre in italiano antico era possibile la proclisi («O muse, o alto ingegno, or m’aiutate»; If II 7).

 

Un altro tratto caratterizzante relativo ai clitici è l’ordinamento in caso di sequenza di due pronomi atoni: in Dante, come del resto nel fiorentino duecentesco (le cose cambiano nel corso del Trecento e il Decameron con le sue oscillazioni già ci mostra la novità), il pronome «con funzione di accusativo è sempre preposto a quello con funzione di dativo» (Manni 2003: 167). Abbiamo quindi non la sequenza me lo, ma lo mi («lo mi vieta»; If. XIX 100) o il mi («il mi consento»; If XXV, 48). La stessa cosa, ovviamente, vale per i pronomi delle altre persone.

 

Infine, bisogna segnalare che in italiano antico, come avveniva in latino, in frasi coordinate o in risposte a frasi interrogative era possibile omettere l’oggetto pronominale, se coincidente con quello della frase precedente: «ciascuno prese un poco di terra e si mise in bocca» (Giovanni Villani; oggi si direbbe ‘se la mise in bocca’); «or non avesti la torta? Messer sì: ebbi (‘la ebbi’)» (Novellino). Anche il lo anaforico di un aggettivo anticamente non veniva di solito espresso. Importante il fatto che in italiano antico l’espressione del pronome soggetto prima del verbo era molto più frequente di oggi (Palermo 1997), specie nella frase interrogativa (Patota 1990).

 

Tra le particolarità relative agli articoli, va segnalata la loro frequente omissione prima dei possessivi anteposti al sostantivo (mio nome), dopo tutto (tutta notte) e davanti a quale relativo («faccia il cammino alcun per qual io vado»; If IX 21); invece si ha la preposizione articolata per il complemento di materia (la corona dell’oro).

 

Per quanto riguarda la frase relativa, l’italiano antico ammette anche costrutti che successivamente sarebbero stati censurati dalla norma, come il che “polivalente”, usato al posto di prep. + cui (per es. con valore partitivo o quando la preposizione reggeva l’antecedente del relativo), anche con ripresa pronominale (D’Achille 1990). Ma cui può anche fungere da oggetto diretto (con riferimento a un antecedente caratterizzato dal tratto [+ umano] e a sua volta il che può essere preceduto da preposizione (in che, per che, ecc.). Come nell’italiano moderno, al posto di ‘in cui’, ‘nel/nella quale’ con valore locativo si può trovare anche dove (o ove); analogamente anche onde poteva fungere quasi da pronome relativo col valore di ‘da cui’, ‘di cui’.

 

Un ulteriore tratto sintattico proprio dell’italiano antico e che l’italiano posteriore non ha accolto è la cosiddetta “paraipotassi”. Quando la subordinata, esplicita o implicita, precedeva la principale, questa poteva essere introdotta da e o da , come nel seguente esempio dantesco: «S’i dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 115).

Lessico e formazione delle parole

Storia linguistica d'Italia

Come si è detto all’inizio, le coincidenze tra italiano antico e italiano di oggi sono notevoli nell’ambito del “lessico fondamentale”. Non mancano però parole che non hanno avuto continuità nella lingua di oggi: per esprimere il concetto che oggi indichiamo con sorella, per es., accanto a suoro/suora (dal lat. soror) c’era anche serocchia/sirocchia, documentato anche in Dante. Al posto di primo e ultimo troviamo primaio e sezzaio. Tra i colori, maggiore estensione, nel senso di ‘marrone’, aveva bruno, oggi ristretto al colore dei capelli, e c’erano anche termini poi usciti dall’uso come perso ‘bruno rossiccio’, paonazzo/pavonazzo; al posto di rosa e viola si usavano rosato e roseo e violaceo. Ma spesso il significato della stessa parola è diventato molto diverso: noia esprimeva un sentimento molto più negativo rispetto ad oggi (Bruni 2007: 56); ragionare significava semplicemente ‘parlare’ (Contini, 1947); i due aggettivi gentile e onesta che aprono un famosissimo sonetto di Dante significano ‘nobile’ e ‘piena di decoro’, e anche il successivo verbo pare non significa ‘sembra’ ma ‘si manifesta’.

 

Per quanto riguarda la formazione delle parole, in italiano antico era molto più frequente la conversione  di un infinito verbale in nome (con tanto di plurale: i basciari ‘i baci’, gli abbracciari ‘abbracci’) ed erano molto più produttivi che non oggi i nomi formati da verbi con i suffissi -mento -gione e -anza (questo soprattutto in poesie, per imitazione dei provenzali e dei siciliani); tra i nomi d’agente -aio è particolarmente produttivo. Tra i prefissi, era molto più produttivo il negativo mis-.

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Storia linguistica d'Italia

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