2. Opera seria e opera buffa

Arti

Il Settecento è secolo di riforme nel teatro musicale. Si comincia fin dai primi anni, quando gli intrecci ingarbugliati e la mescolanza di tragico e comico caratteristici dei libretti secenteschi vengono abbandonati. Le trame si semplificano, puntano a una maggior verosimiglianza, trattano soggetti classicheggianti sviluppati secondo il criterio aristotelico delle unità di azione e di tempo. Responsabili di questa metamorfosi, che vuole restituire dignità letteraria all’opera in musica anche attraverso una rigorosa regolarizzazione della metrica, sono i poeti Apostolo Zeno (Venezia 1668-1750) e, soprattutto, Pietro Metastasio (Roma 1698 - Vienna 1782).

Metastasio, poeta cesareo alla corte di Vienna per 52 anni, è autore di 27 melodrammi (a partire da Didone abbandonata, 1724) che riscuotono una enorme fortuna europea per tutto il secolo: si calcola che i compositori se ne siano serviti oltre un migliaio di volte.

Il luogo che accoglie l’opera seria di stampo metastasiana è il teatro a palchetti, detto “all’italiana”, tipologia architettonica che si diffonde ovunque nel mondo fino a Novecento inoltrato. I palchetti sono intesi più come appendice del salotto di casa (vi si mangia, si conversa, si fa l’amore) che non per seguire quanto avviene sul palcoscenico. Né, d’altronde, pretende attenzione costante la struttura standardizzata dell’opera seria che alterna recitativi e arie solistiche. I recitativi secchi, privi di qualunque attrattiva musicale, mandano avanti l’azione con il sostegno del clavicembalo o poco più. Nelle arie (perlopiù nella forma “col da capo”, a b a') l’azione si arresta, ma si dispiega il virtuosismo mirabolante dei cantanti, ciò che  al pubblico interessava davvero ascoltare. Esiste una casistica assai varia di arie: di sentimento, di carattere, di mezzo carattere, di bravura, di agilità, di portamento, cantabili, parlanti, declamate, spianate. E ancora, in base alla funzione nel contesto drammatico o alla situazione rappresentata: di pazzia, di sdegno, infuriate, con catene, del sonno, di sortita, di sorbetto (affidate, queste, a personaggi di minor rilievo mentre in sala veniva servito il gelato). Ci sono pure le arie di baule, quelle che i virtuosi si facevano confezionare su misura, portandosele poi sempre appresso per sostituirle all’occorrenza, o secondo il proprio capriccio, a quelle previste dal compositore. Sovrani della scena nell’opera seria sono i castrati, cantanti maschi evirati prima della pubertà per mantenerne acuta la voce.

La comicità, bandita dalle trame riformate di Metastasio, si rifugia tra un atto e l’altro delle opere serie, negli intermezzi: agili soggetti farseschi d’ambientazione contemporanea concepiti per un paio di cantanti-attori che non disdegnano magari di esprimersi in dialetto napoletano. Tra di essi il più noto è La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi data a Napoli nel 1733 fra gli atti del Prigionier superbo dello stesso autore. Vi si racconta di un vecchio scapolo tiranneggiato dalla giovane servetta con cui da ultimo si sposerà. Gli intermezzi si svincolano poco a poco dall’opera seria divenendo spettacolo autonomo. Ha così origine l’opera buffa nella quale non soltanto l’aria solistica acquista dinamicità, ma tende pure a lasciare sempre più spazio a duetti ed episodi concertati, a più voci. Inoltre, grazie alla definizione realistica dei personaggi, vengono a costituirsi tipi psicologici ben definiti (i ruoli), associati alle voci di soprano e basso. A quest’ultimo sono spesso assegnati versi da eseguirsi mitragliando rapidamente le sillabe allo scopo di provocare uno strepitoso effetto comico.