8. Turandot: la morte dell'opera

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Turandot di Giacomo Puccini è l’ultimo, vero melodramma della storia. Dopo, certo, il teatro musicale continua a esistere comunque, anche se nella consapevolezza che il cordone ombelicale con una tradizione lunga tre secoli è ormai reciso. Turandot stessa, irrisolta e inconclusa, testimonia la crisi fatale del genere operistico. Puccini (Lucca, 1858 – Bruxelles, 1924) muore per tumore alla gola prima di poterla portare a termine. Ma in che modo completarla, neppure lui l’aveva chiaro.

 

La vicenda, ricavata da una “fiaba teatrale” di Carlo Gozzi datata 1762, racconta di Turandot, principessa cinese che, pur aborrendo gli uomini, ha tuttavia giurato di sposare chi risolva tre indovinelli da lei proposti; in caso di fallimento il pretendente viene decapitato. Innumerevoli giovani ci hanno provato senza successo. Tenta la sorte anche un Principe Ignoto, l'unico che riesce a sciogliere gli enigmi. Turandot però rifiuta di mantenere la promessa. Allora è il Principe a porle un indovinello: scopra il suo nome e potrà ucciderlo, altrimenti dovrà sposarlo. Il finale prevede che sia il Principe in persona a svelarle di chiamarsi Calaf con un bacio ardente che faccia cadere Turandot, vinta dalla passione, nelle sue braccia.

 

Proprio su questo ultimo duetto si arresta la creatività del compositore: rompicapo irrisolvibile per lui, sebbene da sempre cantore sensibile dell’animo femminile, raffigurare in maniera accettabile la mutazione fulminea della protagonista. Puccini costrinse i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni a preparargli ben cinque stesure di questo finale. Desiderava una sorta di trionfo glorioso da rendere in note per mezzo di quel che lui descriveva come “gran frase d’amore con bacio moderno e tutti presi si mettono a lingua in bocca”. Dopodiché, sugli appunti che aveva portato con sé nella clinica di Bruxelles dove tentò una cura estrema al suo male, annotava “e poi Tristano”, evidentemente una suggestione (difficile stabilire come avrebbe dovuto venir sviluppata) da una delle più travolgenti storie d’amore mai messe in musica, Tristano e Isotta di Richard Wagner.

 

È attraverso il sacrificio di Liù che Puccini cerca di giustificare la conversione di Turandot all’amore: la fanciulla schiava di Calaf, e di lui segretamente innamorata, preferisce togliersi la vita piuttosto che svelarne il nome alla principessa che la sta torturando. Ma neanche quest’ultimo atto di sadismo perpetrato dal compositore ai danni di una delle sue eroine riesce a rendere più plausibile il finale lieto. Tanto che l’ispirazione di Puccini si incaglia proprio sulla morte di Liù, incapace di proseguire. Tuttavia, malgrado l’insoluta questione drammaturgica, la partitura è pervasa di gagliarda modernità ritmica, armonica, timbrica. Consola, perlomeno, che il decesso del melodramma avvenga al momento del suo massimo slancio verso l’avanguardia europea.

 

Turandot fu data alla Scala di Milano, incompiuta com’era, il 25 aprile 1926 diretta da Arturo Toscanini. Il compositore Franco Alfano ne venne incaricato del completamento: lavoro onesto che però non ha potuto risolvere il problema lasciato aperto da Puccini. Nel 2001 un nuovo finale è stato commissionato dall’editore Ricordi a Luciano Berio.