3. Gli albori del “sistema Moda” - Signorie e corti del Rinascimento: diffusione e influenze

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Sono usi a vivere in casa delicatamente et essere ben serviti; fuora a bene cavalcare e sfoggiare di veste. (Francesco Guicciardini, La Decima Scalata)

 

La crescita economica basata sull’attività mercantile e manifatturiera portò l’Italia alla ribalta della Rinascita artistica e culturale. Denaro e Bellezza erano l’uno al servizio dell’altro: circondarsi di “beni di lusso” divenne una necessità interiore quanto esteriore, anzitutto per le arricchite classi borghesi alla rincorsa di lustro sociale e del fasto dei ceti nobili.

 

Bisogno di apparire, di mostrare, di “sfoggiare”, quindi di variare e sorprendere. Le fogge degli abiti nel XIV e il XV secolo, sempre più ricercate, modellarono le loro linee al gusto delle arti più nobili: dalle arditezze decorative del Gotico Internazionale, intriso di esotismo importato dai mercati d’Oriente (come in Pisanello e Gentile da Fabriano, o nel prezioso Cassone Adimari), alle più sobrie e proporzionate forme dell’arte del Rinascimento, foraggiata da illuminate famiglie quali De’ Medici, Gonzaga e Sforza, che fecero di Firenze, Mantova e Milano le più influenti Signorie italiane, capaci di esportare lo stile e il gusto oltre confine, sia tramite la mobilità degli artisti che con l’unione fra nobili famiglie. Furono due regine consorti, Caterina e Maria de’ Medici, a portare in Francia le finezze del lusso, le belle maniere e la magia delle toilette inventate in Italia: ancora nel 1830 un grande come Honoré de Balzac, autore anche di un Trattato della vita elegante, lo riconosce. Le due nobili portarono in dote la loro petite Italie, come fu detta la corte di Caterina, fatta di letterati e artisti, di artigiani e persone al servizio della bellezza: tali furono Cosimo Ruggeri, un alchimista che preparava cosmetici in polvere, o René il Fiorentino, che aprì una delle prime profumerie di Parigi. 

 

A circa settant’anni di distanza da quelle di Caterina (1533) le nozze di Maria de’ Medici (1600) furono celebrate con una complessa fastosità che le fonti del tempo documentarono con dovizia.

La crescente coscienza commerciale del “sistema moda”, esortava un consumismo ante litteram che acuì il divario fra le classi sociali. L’abito su misura era un lusso per il popolo che per lo più acquistava dai Rigattieri abbigliamento usato, o si limitava ad abiti di taglio rozzo, confezionati in tessuti grezzi, colorati con tinte poco costose come il grigio, abbinati a scarpe in panno o legno. I costi maggiori di un abito erano infatti relativi ai tessuti e ai coloranti per la tintura estratti dal mondo minerale, vegetale e animale, come la pregiatissima porpora, colore simbolo di ricchezza, potere e prestigio, ma anche il rosso carminio, l’azzurro d’indaco o il giallo zafferano erano difficili da ottenere.

 

In questo periodo il sensuale velluto e la seta, con la sua cangiante luce, spesso adornata di sofisticati ricami e preziose bordure in oro, furono i tessuti principe dell’abito di prestigio, il cui sfarzo finì per offendere i più moralisti, a partire dal clero: ciò incrementò le leggi suntuarie, dispositivi legislativi atti a limitare il lusso nella moda maschile e femminile, operando un “controllo sociale” che regolava di fatto la soglia di decoro, secondo la classe di appartenenza.

3.1. La Decima Scalata

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La riflessione cristiana pre-rinascimentale sulla ricchezza, sulla dicotomia superfluo-necessario, si fondava sull’etica religiosa della salvezza delle anime. All’indice era anzitutto l’ostentazione nei luoghi di potere, nelle corti. Ma nel basso Medioevo anche l’ambito cittadino fu attirato da quel gioco delle apparenze di cui l’abbigliamento è il primo veicolo. Nelle vie aumentavano le trabacche con esposti una quantità di prodotti plasmati nelle botteghe di abili artigiani in “oggetti del desiderio”: tessuti preziosi, fini gioielli, mobili e utensili decorati per “apparire” anche nello spazio domestico… Una “degenerazione esibizionistica”, secondo le critiche dei moralisti, che i legislatori tentavano di calmierare con leggi suntuarie; nondimeno la nuova classe mercantile era decisa a godere della propria affermazione, convinta che anche la vita terrena meritasse attenzione.

 

L’evoluzione rinascimentale muove così dalla sfera teologica-privata a quella giuridica-pubblica. Il superfluo non è più bollato dal peccato e talora diviene la ragione stessa dell’agire: lecito è aspirare alla ricchezza, pur nel rispetto della comunità. Firenze fu allora pioniera dei moderni Stati, teorizzando e sperimentando il criterio redistributivo coi primi sistemi di tassazione, come l’imposta a carattere progressivo sul reddito fondiario, chiamata “decima scalata” o “graziosa”, introdotta da Lorenzo De Medici. Testimonia il Guicciardini che, partendo dalla tripartizione tra spese necessarie, di comodità, superflue, un’imposta progressiva andrebbe ad intaccare le spese eccedenti dei ricchi non toccando quelle necessarie dei meno abbienti. Il dibattito sulla progressività, troppo avanzato per quel tempo, si sviluppò poi nel Settecento, per divenire incandescente nell’Ottocento.

 

L’immagine di Lorenzo de’ Medici, principe di Firenze, rappresenta la quintessenza del potere maschile della città, come ben mostrano busti e ritratti, dal Verrocchio, uno dei tanti artisti da lui protetti, al più tardo Bronzino. Lo schema iconografico lo mostra pensieroso, sguardo verso il basso ma teso all’infinito, come a interrogarsi sulle sorti della Signoria. Ma tutta l’eloquenza è nell’abito, consono a un’autorevolezza più da filosofo che da principe: il tipico cappuccio alla foggia del tempo, campeggia sulla sobria cioppa di colore grigio che scopre le maniche della rossa veste talare, come i dottori del trecento. Il copricapo, che incornicia la testa dai capelli lunghi sul collo, mostra le tre parti distinte che lo compongono: il mazzocchio, che cinge il capo, cilindro imbottito ricoperto di tessuto, chiuso e foderato nella parte superiore; quindi la foggia, lembo posto sotto la parte sinistra del mazzocchio, scende sulle spalle accostando al viso, è il primo elemento asimmetrico nell’abbigliamento pubblico e rompe la monotonia del mantello. Infine il becchetto, doppia striscia di tessuto uguale che cade fino a terra. Lorenzo lo avvolge intorno alla cioppa perché rimanga sospeso dalla parte destra. Il ruolo dell’abbigliamento nell’emergere dell’identità sociale diviene sempre più consapevole dal Rinascimento e il mazzocchio era spesso usato da personaggi influenti, che tenevano a personalizzarne il drappeggio ognuno “a suo modo”, rendendo singolare anche un abito molto formale.

 

La lavorazione del cappuccio spettava al sarto, non ai cappellai, essendo un oggetto di tessuto difficile da modellare e dovendo essere dello stesso materiale della cioppa o del mantello. Questo copricapo, anche femminile, che era molto diffuso per tutto il Medioevo sparì alla fine del XV secolo e il ritratto di Lorenzo, morto nel 1492 testimonia così la fine di un’epoca. Nota il Guicciardini nei suoi Ricordi:

 

Se voi osservate bene, vedrete che di età in età, non solo si mutano e’ modi di parlare degli uomini ed e’ vocaboli, gli abiti del vestire, gli ordini dello edificare, della cultura e cose simili.

3.2. Il Rinascimento e le fogge degli abiti nel XV secolo

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È un secolo di così gentile eleganza il Quattrocento in Italia che si teme con le parole di sminuirne l’incanto...” (Levi Pisetzky)

 

Tramontate le arditezze del gotico fiorito (dallo stile che esasperava la ricchezza ornamentale delle vesti, coi sontuosi tessuti e i capricciosi frastagli), una mirabile armonia di maestosa semplicità si affermava nell’architettura quattrocentesca, riportata da Leon Battista Alberti a una euritmia classica. Così, si pone il suo suggello estetico nell’abbigliamento e un’armoniosa sobrietà lascia fluire le vesti sulla persona senza appesantirne o alterare la linea, come appare negli affreschi del Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella a Firenze.

 

Nel Trecento, il fervore dei nuovi ricchi esplodeva anche in una vivacità degli abiti, spesso bipartiti in verticale con colori in forte contrasto, come il rosso e il verde, il blu e il giallo, combinati in infiniti giochi di spezzature geometriche; l’abito del Quattrocento, coerentemente alle altre manifestazioni dello stile, si orienta invece verso una maggiore compostezza anche nel colore e negli accordi cromatici, disposti nell’armoniosità dell’accostamento tono su tono. Una finezza del gusto che prevale, soprattutto nella seconda metà del secolo, con il trionfo delle tinte chiare e ridenti, esaltate dallo splendore giallo dell’oro, usato più in Italia che oltralpe, nelle stupende vesti di broccato.

 

Il rosato è molto in voga, per le donne e gli uomini, come l’alessandrino (sorta di turchino cupo), frequente è l’azzurro “color di cielo”, anche nelle sfumature dell’aerino e dello sbiadato e il verde chiaro, detto mestichino. Sfumature delicate dai nomi graziosi come il persichino o fior di pesco, il rose secche, il mavi (celeste cupo); il livido bianchesino, il giallognolo schizzo d’oca e il più scuro piè di cappone. Per le donne anziane invece sono in uso i colori mescolati di nero, di viola e di rosso cupo, come il paonazzo, il marmorino, il perso e il morello.

 

La centralità dell'uomo sull'Universo, fulcro dell’Umanesimo, portò a perseguire lo studio delle proporzioni, ritrovandone la perfezione nell'uomo vitruviano iscritto nel quadrato e nel cerchio, come fu ridisegnato da Leonardo da Vinci. Così, e fino alla prima metà del Cinquecento, uomini e donne indossarono abiti che ne sottolineavano le forme senza alterarle. Con il procedere del secolo, i lunghi strascichi e maniche pendenti ereditati dal gotico sparirono; la gonna, montata con leggere arricciature, fu staccata dal corpetto; le maniche, in cui lunghi intagli lasciavano uscire sbuffi della candida camicia, divennero sostituibili grazie all’uso di laccetti, così che le maniche signorili, impreziosite da gemme e puntali in oro, potevano essere custodite in un forziere. Gli abiti degli uomini si rigonfiarono sul torace, il farsetto, un tempo considerato indumento intimo, fu accorciato e messo in mostra, le gambe restarono scoperte, e le calzebraghe aderentissime fasciavano i glutei. L'esibizione del corpo maschile era ormai palese e per coprire gli organi genitali fu creata la braghetta, sorta di pezza di tessuto, che veniva usato anche come tasca. Questo tipo di moda era seguita soprattutto dai giovani, mentre le persone che avevano una carica pubblica o una professione autorevole, come i medici e gli insegnanti, continuarono a portare abiti larghi e lunghi.

3.3. I Cassoni Matrimoniali: gioielli di arte applicata fra mobilio ed exemplum

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I cassoni, eseguiti di regola a coppie e impreziositi da tarsie e pitture, erano un tipo di mobilio particolare, veri e propri emblemi matrimoniali, prodotti fra il XIV secolo e la fine del XVI in Italia, soprattutto a Firenze e Siena, come in Veneto, a Verona (ma solo tra il 1490 e il 1520).

 

Come altri oggetti di arredo o di uso domestico, tipo deschi da parto, cofanetti, forzierini, tali mobili avevano una finalità sia pratica che estetica. Di varia forma e capacità, erano collocati nelle camere nuziali, spesso ai fianchi del letto, in modo da ampliarne la superficie o fungere da panche. Quanto al contenuto, come annota Vasari nelle Vite, “il di dentro si poteva foderare di tele o di drappi, secondo il grado e il potere di coloro che gli facevano fare, per meglio conservarvi dentro le vesti di drappo, ed altre cose preziose”: fiorini d’oro, immagini sacre, libri di preghiere, monili, stoffe, abiti sontuosi, ma anche biancheria, cibarie e … amanti, come si evince dalla novella boccaccesca di Ambrogiuolo e Bernabò (tratta dal Decameron), il cui protagonista si nasconde all’interno di un cassone nuziale per introdursi furtivamente nell’abitazione di un mercante e sedurne la virtuosa moglie: “In una cassa artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella camera della gentil donna (…). Rimasta dunque la cassa nella camera e venuta la notte, all’ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì (..). Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era, dormivan forte, pienamente scopertola tutta, vide che era bella ignuda come vestita”...

 

Commissionati in genere dallo sposo in occasione dell'evento nuziale insieme al resto dell'arredo, la loro ricca decorazione con oro e dipinti apre una visione sui valori, i sentimenti, le usanze circa la celebrazione dell’unione tra uomo e donna, che era spesso un’alleanza tra famiglie: quindi non si trattava tanto di mostrare l’ideale romantico dell’amore coniugale, quanto una politica familiare di solide virtù morali, oltre ovviamente a prestigio e ricchezza; perciò la scelta dei soggetti era primaria e vincolate. Il repertorio a disposizione delle singole botteghe era piuttosto ripetitivo, tant'è che Paul Schubring nel 1915 elaborò un sistema di classificazione basato sulle costanti iconografiche dei vari ambiti.

Generalmente produzione di bottega, pur nobilitati da interventi di buoni artisti, tra i cassoni più significativi troviamo quelli fiorentini che, tra fine XIV secolo e l'inizio XV, mostrano figurazioni in stile tardo gotico, con temi cortesi come il Giardino d'Amore o novelle, specie dal Boccaccio.

 

Verso il 1440 anche nei soggetti scelti si inserisce il nuovo gusto rinascimentale: oltre ai Trionfi del Petrarca, appaiono temi classici e mitologici, episodi dall'Eneide e dalle Metamorfosi di Ovidio, o vicende degli Argonauti come Il Giudizio di Paride, colti sempre come exempla dei valori del matrimonio e dei doveri familiari e civili.

La tavola del famoso cassone Adimari, prestigiosa famiglia fiorentina, ornava in realtà la spalliera di un letto nuziale, confermando la cura destinata al disegno d’arredo del tempo. Raffigura uno sposalizio sullo sfondo del centro di Firenze come appariva allora: il Battistero di San Giovanni, coperto per l'occasione da drappi, e lo scomparso loggiato del Duomo. L’opera, dipinta intorno al 1450 dallo Scheggia, fratello del Masaccio, documenta mirabilmente le ardite linnee dei costumi cerimoniali dell’epoca, con un vero sfoggio di decorazioni e tessuti preziosi, riprodotte con ricco uso di ori, punzonature e altre tecniche pregiate.

3.4. Caterina e Maria de' Medici, regine di Francia

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I matrimoni che univano case regnanti e corti principesche erano importanti occasioni di scambio fra le culture europee, specie dal Rinascimento. Il cardine ne era la sposa che, trasferendosi, recava un corredo di artisti, opere e oggetti preziosi, usanze, destinati a incidere nella vita culturale del paese di adozione. Significativo del potere raggiunto nei secoli dalla famiglia dei Medici, che dominava Firenze e la Toscana dall’epoca di Cosimo il Vecchio, è che riuscì a “sistemare”, in meno di un secolo, ben due regine sul trono di Francia. Due caratteri di donna, due età e due tempi diversi ma, anche se l’una non poté mai incontrare l’altra, Caterina e Maria dei Medici, ebbero in comune molto di più del cognome e della corona. Essendo rimaste entrambe vedove e madri di re bambini, furono le prime regine reggenti di Francia influenti; entrambe furono malmaritate e circondate da una fama sinistra legata ai drammi della politica francese: il nome di Caterina si associa alla strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo (agosto 1572) e alla leggenda dei veleni usati per eliminare i propri nemici; Maria, si è guadagnata la fama di donna avida di potere, di madre spietata in guerra col figlio, Luigi XIII, per il trono di Francia, e persino protettrice di una cricca di imbroglioni italiani. Una cattiva fama molto diffusa nel paese d’adozione fino all’Ottocento. Eppure furono riconosciute, entrambe loro modo, portatrici di orizzonti culturali nuovi e profondi nella storia europea.

 

Caterina (1519-1589) fu sposa a soli 14 anni, nel 1533. Le nozze con il coetaneo, futuro Enrico II, furono combinate dal padre di lui Francesco I, che ne apprezzava l’intelligenza oltre alla cospicua dote e dal di lei zio, papa Clemente VII, deciso a frenare il potere di Carlo V su Roma. Di padre fiorentino e madre francese, seppe fondere le due culture in una sintesi inconfondibile: nelle feste carnevalesche, teatrali e musicali, nella poesia e nelle arti visive come nella filosofia, filtrata dal neoplatonismo di Ficino e della cabala cristiana di Pico della Mirandola. Se già Francesco I di Valois aveva portato in Francia, oltre a Leonardo da Vinci, lo stuolo di artisti che avviò la cosiddetta Scuola di Fontainebleau, Caterina introdusse in Francia molti usi e raffinatezze italiane, come la forchetta, l’abitudine di gustare a tavola salato e dolce distinti, la ricerca di confort per meglio cavalcare, come l’uso delle mutande e una nuova sella da amazzone per tenere le gambe dalla stessa parte; particolare poi fu la cultura dei profumi (con cui venivano intrisi anche i guanti per celare il cattivo odore del pellame), interpretata dai detrattori come una sofisticata tecnica di avvelenamento.

 

L’eredità del mecenatismo mediceo, così trapiantata in suolo francese, alimentò un modello originale di corte destinato ad affermarsi nel secolo successivo, con la nipote Maria de' Medici.

Due grandi opere esposte nella galleria degli Uffizi a Firenze, rievocano le due celebri unioni. La contemporaneità e lo stile dei due quadri, dipinti entrambi nel 1600 da Jacopo Chimenti detto l’Empoli, in maniera volutamente speculare, mitiga notevolmente la distanza fra le due epoche, ma una buona fedeltà alle fogge degli abiti mostra quanto, verso il XVII secolo, la rigida austerità d’influenza spagnola si stia infiltrando anche nella moda del nostro paese.

3.4.1. Maria de' Medici, regina di Francia

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Maria, che visse dal 1573 al 1642, era ormai ventisettenne nel 1600, quando lo zio Ferdinando I ne valutò il “peso politico” per la favolosa cifra di 600.000 fiorini, che gli valsero lo sprezzante titolo di “grossa banchiera”, buona testimonianza dell’accoglienza ricevuta nella nuova patria. Di fatto la vita di Maria non fu felice: dopo un periodo di reggenza seguito all’uccisione del marito, ella visse duri complotti di corte, finché il suo ex favorito, il potente cardinale Richelieu, convinse il figlio stesso, Luigi XIII, ad allontanarla per sempre.

 

Alle laboriose trattative per maritarla con Enrico IV di Navarra (divorziato dalla regina Margot, figlia di Caterina de’ Medici) furono proporzionati i festeggiamenti del matrimonio, che fu celebrato per procura nel Duomo di Firenze. Né l’assenza di Enrico ne compromise il fasto: al ricevimento a palazzo Vecchio, seguì, il giorno dopo, la rappresentazione di una favola pastorale rimasta un punto fermo nella storia teatrale e della musica, l’Euridice, di Ottavio Rinuccini, musicata da Iacopo Peri e Giulio Caccini.

 

Nella "Descrizione delle felicissime nozze della Cristianissima Maestà Maria", il Buonarroti tenne nota di tutti i particolari dell'apparecchiatura delle tavole, delle vivande e delle confezioni di zucchero, nonché dell'addobbo della sala. Fecero epoca le statue di zucchero modellate dal Giambologna. "L'apparecchio supremo" delle tavole presentava gruppi di animali, fra cui una statua equestre dello sposo e, soprattutto, le meraviglie teatrali ideate dal Buontalenti: dal soffitto Giunone e Minerva su nubi rigonfie, svanivano su tavole, cambiate a vista in specchi e cristalli, che poi divenivano boschetti con viali, siepi, fontane e statuette di ninfe…

 

“Di seta, d’oro e d’argento è ricoperta non solo la sua persona, ma tutto ciò che l’accompagna e la circonda nel suo viaggio dalla Toscana alla Francia: le sue dame, lo stuolo numeroso e sgargiante dei livreati e degli armigeri, tutti gli apparati mobili e fissi in cui soggiorna o si muove. La nuova carrozza è tutta tappezzata di velluto rosso ricamato […] le galere che da Livorno la portano a Marsiglia sono parate con 688 braccia di teletta d’argento a fondo rosso; le camere del suo appartamento sulla galera reale sono rivestite di tela d’oro, così come il letto e le portiere; in tela d’oro e seta gialla con opera a gigli sono anche i tendali da sole montati sulla nave, mentre sui pennoni garriscono al vento le lunghe fiamme e i gagliardetti dipinti su tela rossa d’argento”(Roberta Orsi Landini, Lo stile fiorentino alla corte di Francia).

 

Il degno corredo che Maria portò in Francia, interprete di uno stile che lascerà un segno forte nella moda francese del tempo. In linea con la tradizione fiorentina, la foggia di vesti e sottane non ha mai impedito alle donne di mostrare il decolleté, accompagnato adesso dal collare semicircolare, alzato e rialzato dietro la nuca, che si identifica, non a caso, con lo stile della nuova regina, mutuato dalla moda veneziana, alternativa alla imperante moda spagnola. D’altronde, fedele al gusto regale fiorentino Maria predilesse abiti colorati, riservando il nero solo ad occasioni di lutto, come per la sua vedovanza, quantunque rimanga fedele al suo stile, come ben mostra lo splendido ritratto del Rubens, perfetto interprete del nuovo esprit e della nuova femminilità, segno del cambiamento dei tempi. E lui Maria incaricò per illustrare e tramandare ai posteri la “magnificenza” della sua vita e del suo operato.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Roberta Orsi Landini, Lo stile fiorentino alla corte di Francia, in: Maria de' Medici : (1573 - 1642) ; una principessa fiorentina sul trono di Francia / Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. A cura di Caterina Caneva e Francesco Solinas, Livorno : Sillabe, 2005.

3.5. Le leggi suntuarie

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Le leggi suntuarie erano dispositivi legislativi atti a disciplinare l’ostentazione del lusso per classi sociali, sesso, status economico, religioso o politico. Note in Italia fin dall'epoca romana, tali norme assumono rilievo dal Duecento, con l’espandersi degli scambi commerciali e la nascita di nuove necessità e dei relativi simboli di ricchezza. Sono sempre più numerosi coloro che possono sfoggiare abiti e ornamenti preziosi, col rischio di minare le barriere fra gruppi sociali ed entrare in contrasto con la moralità invocata dalla Chiesa.
Attraverso le leggi suntuarie non si controlla solo l’uso di vesti e ornamenti, ma anche banchetti, nozze, battesimi e funerali, come dei flussi di importazioni e delle spese, in difesa dei tradizionali valori di austerità e decoro, anche a scapito del nuovo mondo che si apre al commercio. La preoccupazione delle autorità è perciò duplice, quasi antitetica: da un lato l’importanza della circolazione del denaro, dall’altro il timore di una contaminazione fra i vari ceti.
Dal Trecento si affacciano due novità: primo, si fa concessione a cavalieri, dottori, medici, giudici (e alle relative donne) dei simboli del lusso, secondo, si istituisce una multa da pagare in caso di contravvenzione alle norme che permette di fatto ai più abbienti di ostentare a piacimento l’opulenza raggiunta, con soddisfazione anche delle casse cittadine.

 

Le leggi suntuarie variavano comunque da città a città, con maggiore durezza o tolleranza. A Firenze la Repubblica fiorentina ne emanò diverse, dal 1330 fino al 1546 con la legge “sopra gli ornamenti et abiti degli uomini e delle donne” e alla riforma del 1562 “sopra il vestire abiti et ornamenti delle donne ed uomini della città di Firenze”, emanate da Cosimo I De' Medici contro gli eccessi del lusso. Venezia, città più libera e ricca, era invece più clemente. Al controllo delle disposizioni emanate erano delle guardie, abilitate all’occorrenza ad entrare nelle case o raccogliere denunce premiando il denunciante. Dal 1500 in poi le leggi divennero più dettagliate e minuziose, colpendo maggiormente le classi medie o popolari, in specie la servitù, chiudendo un occhio sul lusso dei signori e delle loro corti. Tra le leggi più discriminanti erano quelle che colpivano gli ebrei, obbligati a portare un cappello a punta o un contrassegno colorato sul braccio; alle prostitute si vietava uno sfoggio troppo vistoso, o si imponevano determinati colori; per gli eretici, vi era un abito penitenziale, solitamente giallo.

 

Nonostante la loro severità le leggi suntuarie si dimostrarono di scarsa efficacia e alla fine del Settecento erano quasi totalmente trasgredite. In Francia l’abito nero e cravatta bianca, imposto ai borghesi per umiliarne il confronto con lo sfarzo della nobiltà, provocò addirittura l'effetto opposto: agli Stati generali del 1789, quei semplici abiti borghesi divennero, per drammatico contrasto, il simbolo di pulizia morale e di nuovi ideali, tanto che a breve l'Assemblea della rivoluzione decise l'abolizione, almeno nel vestiario, di ogni differenza di classe.

 

La moda di fatto obbedisce a proprie leggi interne, fondate sulla passione, sul desiderio del nuovo, che tende all’eccesso e si muove a ritmi rapidi e incessanti. L’idea di dominare e incanalare tale fenomeno è sopravvissuta a lungo nelle menti dei governanti e ancora oggi in molte culture esistono rigide convenzioni o leggi su cosa un individuo possa, o debba indossare: questo deve ricordare come la corrispondenza fra moda e libertà, ormai scontata per noi, sia stata dal Medioevo in poi, una lenta conquista.