8.2. Stile dannunziano e Roma umbertina

Moda e design

Io sono un animale di lusso”, e quel lusso schiarisce il cervello e accende la fantasia: “Io ho, per temperamento, per istinto, il bisogno del superfluo. L’educazione del mio spirito mi trascina irresistibilmente verso l’acquisto delle cose belle. Io avrei potuto vivere in una casa modesta, sedere su seggiole di Vienna, mangiare in piatti comuni […], soffiarmi il naso in fazzoletti di Schostal o di Longoni. Invece, fatalmente, ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avorii, ninnoli, tutte quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa …” (d’Annunzio)

 

Poeta, romanziere, drammaturgo, politico, eroe, pubblicista e pubblicitario, “decoratore”. Si dice che incarnò lo spirito di un’epoca, ed è senz’altro vero che personificò l’assunto per il quale non c’è vera cultura e vero progresso se non attraverso la circolazione delle idee, idee che si nutrono del riconoscimento di una forte identità: per questo d’Annunzio è stato allo stesso tempo il più nazionalista e il più internazionale rappresentante della cultura italiana del tempo. Non è superfluo aggiungere che fu anche uno strenuo sostenitore delle “arti (tutt’altro che) minori”, tanto che attraverso il suo guardaroba e l’arredo delle sue dimore, nonché i doni alle molteplici amanti, si può tracciare una mappa delle eccellenze manifatturiere del tempo: molte francesi e anche inglesi, moltissime italiane. In ogni foto in cui appare la sua immagine (e sono davvero tante) si mostra sempre inappuntabile, nell’abito e nel gesto, soprattutto nei ritratti fotografici del geniale amico Nunes Vais… Molti dei coetanei, come dei posteri, lo considerano il massimo rappresentante del Dandy all’italiana, dello stile, appunto dannunziano. Certo, la ricerca estenuante di una bellezza assoluta che si perpetuasse in ogni recondito aspetto dell’arte, ossia della vita, era palese in ogni sua opera. Neanche la disposizione alla teatralità gli faceva difetto: i suoi romanzi, oltre ad essere una continua dichiarazione d’estetica, ci lasciano dei ritratti d’ambiente e di personaggi che superano per afflato ogni descrizione realistica, trasfigurandola nell’immagine di un’esperienza eccezionale. Lo fa con la consapevolezza di “catturare” il pubblico, in quel fluire fra riserbo e sensualità, ancora repressa sotto l’abito umbertino, sospesa fra il pudore medievale della donna Preraffaellita e i sinuosi nudi di Giulio Aristide Sartorio:

 

Il mantello foderato d’una pelliccia nivea come la piuma de’ cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali” (G. d’Annunzio, Il Piacere, 1889)

 

All’arrivo di d’Annunzio, nel 1881, Roma è da poco divenuta capitale d’Italia. Attraverso la collaborazione con «Cronaca Bizantina» prima e poi con la «Tribuna», il Duca Minimo (come ama firmarvi le sue Cronache Mondane) può penetrare a fondo quella società aristocratica e alto-borghese presa dall’ansia di apparire, “controllandone” gli umori e partecipando all’ affermazione dello stile umbertino. Vestiti i panni dell’arbitro di tutte le eleganze, suggerisce decor e menu, sport e passatempi, tessuti e fogge, divertendosi talvolta a criticarne le deformazioni:

 

Ogni anno più aiutate in questo dalla moda, le spalle delle signore si vanno rialzando e acuminando a discapito della bellezza e della nobiltà loro. Le spalle salgono, salgono salgono, come un titolo immobiliare qualunque. Ma a quando il crac?” (Spalle delle signore, in “Tribuna”, novembre 1886).



 

8.2.1. Lo stile umbertino

Moda e design

Dal 1871, dopo la breve parentesi di Firenze capitale, Roma ebbe il compito di rappresentare nel mondo l’Italia Unita e lo fece con la sua congeniale maestosità, più nella quantità che nel genio antico; si ritrovò perciò a gestire un’emergenza di crescita sociale e culturale per assicurarsi la supremazia e, come diciamo oggi, la visibilità di una grande e moderna città, capace di influenzare le forme e gli stili. Se è evidente che fino ad allora erano gli ambienti di corte a dettare gli stili, lo è ancor più in quell’epoca di espansione colonialista. In Francia trionfava il Secondo Impero, lo stile Vittoriano in Inghilterra era all’apogeo e anche il guglielmino in Germania aveva la sua “cifra”. L’Italia ebbe il suo stile umbertino, che coincise con il regno di Umberto I di Savoia, Re d’Italia dal 1878 al 1900, anno del suo assassinio. Coerentemente alla situazione di ritardo nello sviluppo industriale e tecnologico (nonché sociale), nell’assillo di dar vita a uno stile “nazionale”, l’umbertino si distingue per un'interpretazione particolare dell'eclettismo, individuato in un neorinascimento accademico e convenzionale, con qualche incursione nelle neobarocco imperante oltralpe: tendenza evidente soprattutto in architettura, che influirà anche nell’adozione nostrana del “ciclone” Liberty, nome preso in prestito dal mercante inglese delle Arts and Crafts (che aveva punti vendita in Italia di gran successo) e passato così in fretta da non fare a tempo a tradursi in stile “floreale”. Il moderno stile, identificativo della Belle Epoque, si fa ancor meno sentire nella grevità governativa di Roma, rispetto a città più dinamiche e industriose come Milano e Torino o nella Palermo di una borghesia imprenditoriale alla ricerca ricchezza e prestigio, come la famiglia Florio, che ne fecerouna città essenzialmente liberty, quasi una piccola capitale dell'art-nouveau" (Leonardo Sciascia).

 

Anche l’arredo ebbe la sua traduzione umbertina, con l'opulenza ornamentale e la pregnanza simbolica della stagione manierista che privilegia la decorazione ad intaglio, spesso ad altorilievo, con vere e proprie sculture a tutto tondo, spesso inglobate nella struttura stessa del mobile: motivi zoomorfi ed antropomorfi, mascheroni, ghirlande di fiori, stemmi, borchie e festoni, fusi in un unicum monumentale quasi a forzare il gusto dell'epoca, come nei “pezzi” di Mariano Coppedè (padre di quel Gino dell’omonimo quartiere romano, massimo sforzo del Liberty romano).

Similmente, la moda del periodo umbertino, senza il coraggio di slanci risolutivi, si destreggia inquieta su variazioni a tema: maniche, collo, cappelli, drappeggi scultorei e decorazioni di nastri, rouches, trine, ricami e lustrini, con sottili distinzioni a seconda delle occasioni. Il tessuto deve “aiutare” la composizione, quindi essere corposo e malleabile insieme: velluto, broccato e il raso … stoffe sontuose ideali per lo sfoggio di ricchezza di aristocrazia e alta borghesia, ispirate all’eleganza della Regina Margherita, donna fiera e raffinata che godeva di un discreto seguito “modaiolo”.

 

La sola costante della linea in questi anni è la posizione naturale del punto-vita, sempre assottigliato dal busto steccato a creare il cosiddetto “vitino di vespa”. All’inizio del periodo la figura femminile si assottiglia in uno slanciato schema tubolare, poi ritorna alla linea sinuosa che accentua le curve del seno e dei fianchi, in contrasto con la vita sempre più sottile. Nell’ultimo decennio il ritorno alla verticalità renderà inevitabili le diete dimagranti. Dopo il 1890 lo stile Liberty si annuncia negli svolazzi delle mantelline e degli orli.

Intanto, per influsso della riforma in atto, si avverte la tendenza alla semplicità, di cui è emblematico il vestito tailleur o alla mascolina.

Nell’abbigliamento maschile ancora non si assiste a grandi cambiamenti, a parte nel settore sportivo, come richiesto dalla grande espansione dell’attività fisica con la nascita di tanti nuovi sport.

Questo è un periodo importante per l’Italia, pur nelle contraddizioni del suo ibridismo, come altrove d'altronde. Nonostante le ritrosie delle classi aristocratiche e borghesi più conservatrici, la febbre del rinnovamento e il progresso tecnico e scientifico saranno di grande stimolo per una classe imprenditoriale orgogliosa e operosa: molte delle future industrie e manifatture che hanno fatto la storia della ripresa economica del secondo dopoguerra sono nate da qui.

Sono passati trent’anni dalla Great Exhibition londinese, ma finalmente re Umberto I può inaugurare l'Esposizione Industriale di Milano, che riscuote un enorme successo. Siamo nel 1881 e l’ormai celeberrimo teatro La Scala celebra l’evento con il Gran Ballo Excelsior, un osanna al progresso e al trionfo della "luce" ovviamente elettrica.