11.1. Moda e cinema: la dolce vita

Moda e design

La moda è stata strettamente legata al cinema fin dal suo nascere, ingigantendosi con il fenomeno dello star system hollywoodiano. La Hollywood italiana è stata la Cinecittà degli anni ‘50, quando il cinema italiano ha cominciato ad affermarsi attraverso alcuni autentici capolavori (ed un’accorta politica di sostegno statale). Fra le prime protagoniste della moda legate al fenomeno “cinema” è Fernanda Gattinoni, creatrice, dal 1946, dell’omonima griffe (tuttora all’attivo) e protagonista della moda per la “dolce vita” dell’aristocrazia romana. Formatasi a Londra da Molyneux ed ex direttrice della premiata casa di moda Ventura, il suo primo abito “famoso” fu un paltò di velluto verde per Clara Calamai. Vestì poi Ingrid Bergman, nella vita e nei film di Roberto Rossellini e, su richiesta della costumista Maria de’ Matteis, Audrey Hepburn in Guerra e Pace (1956) di King Vidor (cfr. Gnoli, 2012, pp.156-162).

 

Cinecittà ha anche “prodotto” importanti e indimenticati divi italiani, come Silvana Mangano, lanciata nel 1949 da Riso amaro di Giuseppe De Santis: ex indossatrice e già Miss Roma, mise in luce la sua avvenenza “selvaggia e naturale” con un look fatto di calze nere, golfini attillati, sottovesti e cappelli di paglia. Nel 1953 furoreggiò Gina Lollobrigida con Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini: quella “vestaglietta” sdrucita e aderente fu un capo simbolo di una moda lanciata negli anni ‘50. E poi Sophia Loren de La donna del fiume (1954), diretta da Mario Soldati nella celebre scena in cui balla il mambo, con la vita stretta dalla cintura altissima…

 

La stretta relazione fra moda e cinema è sancita anche nella sfilata all’hotel Excelsior, durante la Mostra del cinema di Venezia, nel 1949: per l’haute couture italiana presentarono i loro modelli Biki, Carosa e le sorelle Fontana. L’alta moda era pronta a fare il suo ingresso nel cinema dando il suo apporto alla costruzione di una tipologia divistica femminile. Negli anni ‘60 tale ingresso era già un fatto compiuto ed il rapporto del cinema italiano con la moda si caratterizzava per l’opera del grande sarto che vestiva il personaggio o i personaggi facendone delle icone di stile, come Irene Galitzine con Claudia Cardinale in Vaghe stelle dell’Orsa.

Cinecittà, che oltre a produrre films “in proprio”, ospitava fior fiori di mega-produzioni hollywoodiane attratte, oltre che da rigurgiti da Grand Tour, dalle impareggiabili maestranze, tanto dotate quanto a basso costo. In più, la rinata voga del periodo per il kolossal storico (da La caduta dell’Impero romano, a Quo Vadis?, da Ben Hur a Anna Karenina e Guerra e pace), unì la storia della moda a quella delle sartorie del costume, come la SAFAS, Umberto Tirelli, la Casa d’Arte Peruzzi, d’origine fiorentina come la Casa d’arte Cerratelli.

Oltre ad essere interpellate per gli abiti di scena, le case di moda venivano in contatto con gli attori, i produttori, i giornalisti… tutti potenziali acquirenti di nuovi modelli più o meno esclusivi: un indotto economico e di immagine di tutto rispetto, come hanno dimostrato le Sorelle Fontana e Schubert per primi.

 

La strada alla “dolce vita era aperta e si poteva tentare “il sorpasso”. I due omonimi film, il primo di Fellini del 1960, il secondo del 1962 di Dino Risi, ci mettono in guardia sulle contraddizioni generate dal miracolo economico nostrale: la moda si costruisce sulle imprese del lusso, che basano il mercato sui sogni del pubblico di un’immagine migliore o comunque diversa della realtà e il cinema aiuta all’illusione, o alla riflessione. Nel 1968 Pasolini chiede a Roberto Capucci di vestire Terence Stamp e Silvana Mangano per il suo Teorema. A quel momento il sarto artista aveva già deciso di porsi fuori dal meccanismo tritatutto commercial-mondano della moda (alla Dior per intenderci), rifiutando il nascente regime del prêt à porter e optando per la sperimentazione di materiali inconsueti e la ricerca artistica. Due anni prima Mary Quant, nell’Inghilterra della Rational Dress Society, era stata nominata Cavaliere della Corona (giusto un anno dopo i Beatles). Nessuno fino ad allora aveva tanto considerato le nuove generazioni come potenziali acquirenti. Sarà questa in fondo la più grande rivoluzione della moda, in ogni sua sfaccettatura: dall’entrata in scena delle top model-teen agers (con la mitica Twiggy), alla querelle di Courrège sul copyright della minigonna (nel ’64 aveva presentato abito corti e linee a trapezio) e a cui la stilista inglese aveva indirettamente risposto: ”Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le stesse che si vedono per la strada”. E con loro, da qui in poi, anche l’alta moda dovrà fare i conti.