Il disegno di restaurazione elaborato al Congresso di Vienna (1814-1815), col quale, ripristinando l’Ancient Régime, le principali potenze europee tentavano di “cancellare” l’esperienza della rivoluzione francese (1789-1799) e del regime napoleonico (1799-1815), ridefinì la carta politica d’Europa, senza tuttavia poter arrestare la svolta ormai impressa al processo di sviluppo sociale, economico e amministrativo. La Francia aveva ormai diffuso ed “esportato” grandi ideali di profondo rinnovamento, contenuti tra l’altro nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (emanata nel 1789, che divenne l’ispirazione e il fondamento delle moderne carte costituzionali), e, insieme, pur tra molte contraddizioni, le forme e gli “strumenti” di questa modernizzazione.
Dopo la vittoria delle armate francesi, guidate dell’allora generale Bonaparte (Campagna d’Italia, 1796-1797), sugli Stati assoluti (Regno di Sardegna, Sacro Romano Impero e Stato Pontificio), i territori “liberati” furono organizzati dapprima nella forma di repubbliche marcatamente giacobine, e quindi nella più vasta e organica Repubblica Cisalpina. Il modello di stato moderno mutuato dalla Francia, non solo costituì la base della loro pubblica amministrazione, dell’apparato giudiziario, dell’esercito e della scuola, ma animò anche nuovi “spazi” del panorama culturale (il teatro, i giornali, l’editoria). La successiva trasformazione del regime napoleonico in Impero (1804) modificò sensibilmente il quadro. Si impose decisamente l’assoluta centralità della Francia che, di fatto, relegava le nuove realtà politiche italiane in una condizione quasi coloniale, nella quale si realizzava un sostanziale sfruttamento a vantaggio dello Stato dominante. Venivano così frenate le spinte innovatrici ed era “congelato”, almeno in parte, il processo di cambiamento, ma soprattutto risultavano frustrate le speranze patriottiche degli intellettuali più aperti, che avevano avuto parte decisiva nel processo politico e nella diffusione delle nuove idee. Alcuni, come Vincenzo Monti, si ripiegarono nel vecchio ruolo di poeta “cortigiano”, celebrando i fasti del potere; altri si adattarono al ruolo di fedele funzionario dello Stato; altri ancora, come Ugo Foscolo, rifiutarono ogni compromesso e continuarono a difendere la propria indipendenza di pensiero ed espressione.
Dopo il Congresso di Vienna, sotto le pesanti restrizioni imposte dai regimi assoluti restaurati, molti esponenti dei ceti medi più vicini alle nuove idee “democratiche” tentarono di mettere in discussione il nuovo equilibrio politico e, spinti dagli ideali di libertà e indipendenza e consapevoli della propria forza politica, riuscirono a organizzarsi attivamente. Alla luce dei primi fallimenti dei gruppi più radicali (moti rivoluzionari del 1820-21 e 1830-31), le istanze rinnovatrici si assestarono su posizioni più moderate e, dopo la trasformazione del Regno di Sardegna in una monarchia costituzionale, fu possibile “costruire” l’indipendenza italiana grazie all’azione diplomatica e militare del governo sabaudo, che poté appoggiarsi al diffuso sentimento delle popolazioni locali (I e II guerra d’indipendenza). Grazie all’azione decisiva di Giuseppe Garibaldi che, a capo di un migliaio di volontari, mise a segno una serie di vittorie contro le truppe del governo borbonico, anche il Regno delle Due Sicilie venne annesso al nascente stato italiano. Veniva così proclamato, il 17 marzo 1861, il Regno d’Italia, sotto Vittorio Emanuele II.
Nel quadro letterario tra Sette e Ottocento appaiono ancora dominanti i generi e le forme del classicismo formale e, sul piano linguistico, l’osservanza – più o meno rigida – del “purismo” (Basilio Puoti, Antonio Cesari, Pietro Giordani). A partire dal secondo Settecento, però, l’influenza di opere di autori stranieri, anche tradotte in italiano (il romanzo sentimentale I dolori del giovane Werther del tedesco Goethe, il dramma di Friedrich Maximilian Klinger Sturm und Drang – da cui l’omonimo movimento dell’individualismo titanico –, i Canti di Ossian dello scozzere James Macpherson, tradotti da Melchiorre Cesarotti e la poesia “cimiteriale” inglese) favorì lo sviluppo di nuove forme di sensibilità e di nuove forme espressive che giungeranno a maturazione, con l’inizio dell’Ottocento, in quella che si configurerà come “letteratura romantica”. Tuttavia, distinguendosi da quello europeo – “irrazionale”, soggettivistico, esotico, primitivo, inquieto, “nero” –, il Romanticismo italiano si caratterizza piuttosto come un movimento positivo, rivitalizzato dall’impegno civile, nel quale agiscono con forza soprattutto gli ideali patriottici. Il Romanticismo si configura come un momento di crescita culturale che coinvolge ampi settori della società, fino ad includere il popolo tutto, inserito in una idea di società allargata e progredita. Le tematiche del Romanticismo coincidevano sostanzialmente con i valori del Risorgimento.
Il panorama letterario fu rinnovato ad opera di tre grandi scrittori, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, che proposero forme e linguaggi radicalmente differenti.
Accanto a loro spiccano comunque alcuni felici episodi “minori” della produzione poetica: la poesia satirica del toscano Giuseppe Giusti, quella soffertamente religiosa di Niccolò Tommaseo e quella dialettale del milanese Carlo Porta e del romano Giuseppe Gioachino Belli. In netta opposizione alle convenzioni si muoveranno più tardi, intorno agli anni ’60-’70, i poeti della Scapigliatura, “etichetta” proposta per la prima volta da Cletto Arrighi (pseudonimo dello scrittore Carlo Righetti) nel titolo di un suo romanzo (1862) per descrivere un gruppo di ribelli alla loro classe di provenienza che vivevano disordinatamente e in modo eccentrico, e assunta quindi come definizione dagli stessi scrittori e artisti del movimento.
A partire dalla pubblicazione della prima edizione dei Promessi sposi (1827), si assiste a una vera e propria fioritura del genere del romanzo: in tutte le sue varie accezioni e sfumature (storico, sentimentale, rusticale, psicologico…), conquistò rapidamente il gusto del pubblico più largo.
Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo (1867, postumo), nel quale le vicende personali e psicologiche del protagonista si intrecciano con avvenimenti politici e sociali della storia, già anticipano le caratteristiche del romanzo contemporaneo. Nella seconda metà dell’Ottocento, anche per l’influenza di modelli europei (francesi: Balzac, Zola, Flaubert; russi: Dostoievskij e Tolstoj; inglesi: Dickens), la svolta “verista” (Verga, Capuana, De Roberto) trasformerà nuovamente la struttura del romanzo e la sua tecnica narrativa.
Parallelamente idee e spinte diametralmente opposte, irrazionali, sviluppatesi in una complessa varietà di temi e tendenze all’interno del movimento letterario del “decadentismo” parigino (il mistero, l’estetismo, la malattia, la follia, la morte…), negli ultimi due decenni dell’Ottocento, sconfinando anche nel primo Novecento, esercitarono forti suggestioni sulla produzione poetica e in prosa di alcuni scrittori italiani, in particolare quella di Gabriele D’Annunzio, ma anche di Italo Svevo e Luigi Pirandello, i quali tuttavia svilupperanno queste suggestioni superandole e approdando a più consapevoli intuizioni sull’“io” prossime alle future scoperte della moderna psicanalisi.
Di rilievo anche la produzione a carattere memorialistico (autobiografie, diari, memorie): il testo più famoso è Le mie prigioni di Silvio Pellico (1832) in cui la difficile vicenda personale, sorretta da una solida impostazione ideologica, è ricostruita con abilità narrativa.
La diffusione della stampa periodica e l’estendersi dell’istruzione favoriscono la nascita della critica e della storiografia letteraria nella loro accezione moderna; la prima con la funzione di “mediazione” tra gli autori e il loro pubblico, la seconda, che si pone in una nuova ottica legando lo sviluppo della civiltà letteraria allo svolgersi delle vicende storiche, politiche e sociali (si ricorda il monumento della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, pubblicata nel 1871-71).