6.1.4. W l’Italia

Moda e design
Francesco Hayez, "Ritratto del Conte Baglioni", olio su tela, 1860 circa

“Da allora tutto mutò rapidamente nelle abitudini domestiche, nella vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, quasi come se fosse passato un secolo” (Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù).

 

I moti del ’48 sono una data capitale anche nel calendario della storia della moda italiana: succube per tutto l’Ottocento delle mode francesi, riuscì dal sentimento irredentista a prendere lo slancio verso un ruolo più creativo, elaborando nuove tendenze molto particolari e molto seguite. I fermenti politici e gli aneliti di indipendenza, effettivamente, diedero vita al tentativo di una nuova moda autoctona, anche al di là dell’evento simbolico costituito del vestito nazionale, cioè all’italiana.

 

Già negli anni precedenti comparvero barbe e pizzetti come simboli carbonari; dal ’47, a seguito dei moti in Calabria, venne adottato il cappello alla calabrese, come simbolo di liberalismo, quello alla puritana (da I Puritani del Bellini) o anche quello piumato all’Ernani (il bandito protagonista dell’omonima opera verdiana).

 

Il «Corriere delle Dame», che già dal suo inizio ai primi dell’Ottocento, promuoveva la cultura nazionale, non aveva dubbi "Che la moda sia collegata cogli avvenimenti sociali e politici” come “…è provato anche dai recenti avvenimenti in Italia. Abbiamo visto lo scorso carnevale le signore presentarsi al teatro colle cuffie guarnite di nastri di tre colori, presenti i dominatori della casa d’Austria; abbiamo visto la moda dei vestiti di velluto proposta per danneggiare le case commerciali della Germania; poi i cappelli acuminati, simbolo della rivoluzione napoletana, calpestati al loro apparire dal bastone della polizia; ma risorti più tardi a nuova e gloriosa vita, accompagnarsi con le fogge svelte e marziali dei popoli della Calabria”.

 

L’utilizzo del velluto diede poi vita al costume all’italiana, detto anche alla lombarda era divenuto in via informale quasi l’uniforme dei combattenti delle Cinque Giornate: “…un camiciotto o blouse di velluto nero, di fabbrica nazionale, stretta alla vita da una cintura di pelle da cui pendeva una daga o spada: colletto bianco grande rovesciato sulle spalle: calzoni corti di velluto nero, stivali che arrivavano al ginocchio, cappello alla calabrese con pennacchio e una collana che scendeva sul petto e da cui pendeva un medaglione, ch’era di solito il ritratto di Pio IX”, come ricorda Giovanni Visconti Venosta. Questa moda d’impegno civile fu adottata anche dalle donne: il vestito, sempre di velluto, era portavano “aperto su una sottana bianca di raso o di lana, rifinito da fusciacche tricolori, cappelli alla calabrese, pistole e persino spade e sciabole usate dalla cavalleria. Il capo veniva coperto non dai frivoli cappellini alla francese, ma da grandi veli neri o da mantiglie di pizzo, che scendevano a coprire spalle e vita.” (Cristina Cenedella, Tra moda e rivoluzione: la Lombardia nel 1848, Rivista la ca' granda, XLVII, 1, 2006).

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