È un poema di argomento filosofico, in sei capitoli a rima incatenata (ABA, BCB, CDC) che Lorenzo scrive dopo la morte del padre. Nel primo capitolo l’autore, che parla in prima persona, racconta di aver lasciato Firenze, stremato dalle responsabilità di governo (l’aspra civil tempesta) per cercare quiete in campagna (più tranquillo porto). Mentre vaga in una bella valle ombrosa (amena valle che quel monte adombra) incontra un pastore di nome Alfeo che gli chiede per quale motivo abbia lasciato gli splendori della città (teatri e gran palagi e templi). Fra i due inizia una altercazione[1], uno scambio di idee molto vivace che riprende le tematiche tradizionali del contrasto città – campagna, dove Lorenzo elogia la vita serena a contatto con la natura mentre Alfeo descrive la fatica dei contadini e la loro esistenza segnata dalla miseria. Si inserisce poi nel dialogo il filosofo Marsilio Ficino che, sollecitato dai due contendenti, a partire dal secondo capitolo e per tutti i successivi, espone la sua dottrina sul Sommo Bene (Summo Bono), identificato con la Bellezza, la Verità e la Perfezione divina, a cui tutti gli uomini devono tendere, liberandosi dalle passioni terrene.