Fonologia

Fonologia
Anteprima: 
Il sistema dei suoni della lingua italiana

Il sistema dei suoni della lingua italiana.

Come nelle altre lingue, anche nella lingua italiana vanno distinte tre categorie di suoni:

 

- VOCALI (o puri «suoni»): prodotti dall’aria quando nel canale orale non si creano ostacoli particolarmente resistenti;

 

- CONSONANTI (o «rumori»): prodotti dall’aria quando nel canale orale si creano ostacoli piuttosto resistenti, per effetto di momentanea chiusura, spostamento di organi ecc.

 

- SEMIVOCALISEMICONSONANTI: suoni per così dire «intermedi» tra vocali e consonanti.

 

I fonemi della lingua italiana

Fonologia

Nella lingua italiana si hanno in tutto 30 fonemi (7 vocali + 2 semiconsonanti[1] + 21 consonanti) se non contiamo le differenze di durata dei suoni consonantici. Se teniamo conto anche delle differenze di durata delle consonanti (che valgono per 15 consonanti) il numero dei fonemi dell’italiano sale a 45.



[1] Come vedremo più avanti (2-3), vi è differenza tra semiconsonanti e semivocali, ma le semivocali non costituiscono fonemi in italiano, ché non danno luogo a opposizioni.

 

Le vocali

Fonologia

Nella produzione delle vocali entrano in gioco quattro fattori:

 

1) la vibrazione delle corde vocali (si tratta di suoni sempre «sonori»);

2) la posizione (bassa o alta) del dorso della lingua rispetto al palato, con conseguente apertura o chiusura del canale fonatorio (modo di articolazione);

3) lo spostamento del dorso della lingua nella cavità orale (in avanti o anteriormente, oppure indietro o posteriormente);

4) l’eventuale arrotondamento in avanti delle labbra (quest’ultimo fattore è poco importante nella classificazione delle vocali e riguarda, come vedremo, solo le vocali posteriori).

 

Nella lingua italiana standard, in relazione al luogo e al modo di articolazione si distinguono 7 vocali, che vengono però rappresentate nello scritto con 5 grafemi:

 

VOCALI

MODO DI ARTICOLAZIONE

LUOGO DI ARTICOLAZIONE

/a/

/ε/

/e/

/i/

/ɔ/

/o/

/u/

bassa / aperta

medio-bassa / semi-aperta

medio-alta / semi-chiusa

alta / chiusa

medio-bassa / semi-aperta

medio-alta / semi-chiusa

alta / chiusa

centrale

anteriore / palatale

anteriore / palatale

anteriore / palatale

posteriore / velare

posteriore / velare

posteriore / velare

 

Le qualificazioni della colonna “modo di articolazione” fanno riferimento alla distanza del dorso della lingua rispetto al palato e alla conseguente apertura / chiusura del canale fonatorio (dorso in basso: vocale bassa, canale aperto; dorso in alto: vocale alta, canale chiuso); quelle della colonna “luogo di articolazione” si riferiscono alla posizione della lingua rispetto al palato in senso orizzontale: anteriore o palatale (dorso della lingua proteso verso il palato duro), centrale, posteriore o velare (dorso della lingua arretrato verso il velo palatino o palato molle).

Riferendoci alla posizione assunta dal dorso della lingua nell’articolare le vocali, possiamo costruire lo schema seguente, detto triangolo vocalico.

 

 

All’articolazione delle vocali posteriori contribuisce anche l’arrotondamento in avanti delle labbra e, per tale motivo, queste vocali vengono anche dette prochèile (dal greco prókheilos, composto di pró- “avanti” e kheilos “labbro”).

Le consonanti

Fonologia

Oltre al modo di articolazione e al luogo di articolazione, nella classificazione delle consonanti intervengono anche i parametri della sordità / sonorità e della nasalità. Si veda lo schema seguente, nel quale vengono riportati i suoni consonantici dell’italiano (tra parentesi quadre sono indicati quei suoni che, pur essendo tipici dell’italiano, non hanno valore fonematico o distintivo, oppure sono usati nell’italiano nei prestiti (è solo il caso di [ʒ], che troviamo in abat-jour o nel fiorentino la giornata).

 

Secondo il modo di articolazione, le consonanti possono essere distinte in occlusive, fricative, affricate, liquide (laterali e vibranti). Secondo il luogo di articolazione, possiamo avere suoni consonantici bilabiali, labiodentali, dentali, alveolari, prepalatali (o palatoalveolari), palatali e velari. Illustriamo allora i suoni, chiarendo man mano queste qualificazioni: partiremo dal modo di articolazione (es. occlusive) e procederemo guardando al luogo di articolazione (es. bilabiali, dentali, velari).

 

- Le occlusive sono prodotte attraverso una momentanea occlusione del canale fonatorio, alla quale segue, con il passaggio dell’aria, una sorta di “esplosione” (per questo tali consonanti sono anche dette momentanee o esplosive). Le consonanti occlusive possono essere orali (l’aria passa solo attraverso la cavità orale) o nasali (l’aria passa anche attraverso la cavità nasale). A seconda del luogo in cui vengono articolate, le occlusive possono essere: bilabiali, se l’occlusione avviene con la chiusura di entrambe le labbra [p, b, m], es. pasta, bacio, mare; labiodentali, se la chiusura si attua appoggiando gli incisivi superiori alle labbra inferiori [ɱ], es. anfora; dentali, se l’occlusione è attuata con la punta della lingua che va a toccare la parte posteriore degli incisivi superiori [t, d], es. tasca, diga; alveolari, se l’occlusione avviene con la lingua che tocca gli alveoli [n], es. nastro; palatali, se l’occlusione è ottenuta con la lingua che va a toccare il palato [ɲ], es. gnomo; velari, se l’occlusione è provocata dal contatto della lingua con il velo palatino [k, g, ŋ], es. cane, gatto, ancora, anguria.

 

- Le fricative sono consonanti prodotte con una chiusura parziale dell’apparato fonatorio che al passaggio dell’aria provoca una specie di “frizione”. Dato che questi suoni, al contrario delle occlusive, possono essere prolungati, le fricative vengono anche dette continue. Le fricative, in relazione al luogo di articolazione, possono essere labiodentali [f, v], es. festa, vino; alveolari [s, z], es. sorella, rosa; prepalatali o palatoalveolari [ʃ, ʒ], es. sciopero, abat-jour.

 

- Le affricate sono consonanti che cominciano con un’articolazione occlusiva e finiscono con un’articolazione fricativa: guardando al luogo di articolazione, esse possono essere alveolari [ts, dz], es. mazzo, zaino; prepalatali o palato-alveolari [tʃ, dʒ], es. ciao, giorno.

 

- Sotto l’etichetta tradizionale di liquide vengono riunite le consonanti laterali, prodotte con la lingua contro i denti e l’aria fuoriuscente dai due lati della lingua stessa, e che possono essere distinte, in relazione al luogo di articolazione, in alveolare [l] e palatale [ʎ], es. lama, giglio; e la vibrante alveolare [r], prodotta mediante la vibrazione dell’apice della lingua sugli alveoli, es. rana.

 

Le consonanti possono essere sorde o sonore: in ogni casella della nostra tabella, il suono a destra è sordo, quello a sinistra è sonoro.

Per quanto riguarda la durata, i suoni senza asterisco possono essere sia scempi che geminati (o doppi), i suoni con un asterisco possono essere solo scempi, quelli con due asterischi solo doppi.

 

 

 

LUOGO DI ARTICOLAZIONE

 

 

 

bilabiali

 

labiodentali

 

dentali

 

alveolari

 

prepalatali o

postalveolari o

palatoalveolari

 

palatali

 

 

velari

MODO DI ARTICOLAZIONE

 

 

 

 

occlusive

 

 

 

orali

 

 

 p      b

 

 

 

 

t       d

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

k      g

 

nasali

        m

            [ɱ]

 

           n

 

      ɲ**

       [ŋ]

fricative

 

 

f      v

 

 

s        z*

   

ʃ**           [ʒ]

 

 

affricate

 

 

 

 

 

ts**  dz**

 

 

 tʃ         dʒ

 

 

liquide

laterali

 

 

 

           

             l

 

        

       ʎ**

 

vibranti

 

 

 

         

            r

 

 

 

 

Le semiconsonanti e le semivocali nei dittonghi. Dittongo e iato

Fonologia

Si chiamano semiconsonanti i suoni che sono a metà strada tra le vocali e le conso­nanti. Si tratta, in pratica, delle vocali i e u pronunciate stringendo ancor più il canale orale: si ottengono così la semiconsonante palatale che si indica col segno /j/ (detto jod), e la semiconsonante velare che si indica col segno /w/ (detto uau).

 

Le semiconsonanti hanno valore fonematico, anche se si possono reperire pochissime coppie minime rispetto alle vocali corrispondenti: ad es. spianti /'spjanti/ (2a persona singolare del presente indicativo del verbo spiantare ‘sradicare’) e spianti /spi'anti/ (participio presente plurale del verbo spiare ‘osservare senza essere visti’); la quale /la'kwale/ (pronome relativo femminile) e lacuale /laku'ale/ (relativo a un lago, lacustre). 

 

Le semiconsonanti si trovano esclusivamente nei dittonghi: questi sono combina­zioni di una semiconsonante (sempre atona) e di una vocale (che può essere tonica o atona).

Sono dittonghi ia, ie, io, tu (ad es. nelle parole piano, vieni, piove, piuma) e ,, ui, uo (in guardo, guerra, guida, buono).

 

I dittonghi nei quali la semiconsonante precede la vocale si chiamano ascendenti.
Quelli nei quali si trova invece prima la vocale, si chiamano discendenti: sono ai, eioi, au, eu (ad es. in sai, sei, noi, causa, reuma).

La i e la u dei dittonghi discendenti sono più vicine alle pure vocali e vengono perciò chiamate anche semivocali.

La lingua italiana conosce anche trittonghi, costituiti da una i e una u semiconso­nantiche, una vocale e una semivocale (tuoi, buoi, guai, miei), oppure da due semiconsonanti e una vocale (aiuola).

Il dittongo (ascendente o discendente) e il trittongo formano una sola sillaba; gli elementi che li compongono si possono però separare con uno sforzo di pronuncia, e in tal caso la semiconsonan­te o la semivocale diventa una vocale e fa sillaba per suo conto: mà-i, tu-òi. Questa separazione si chiama dièresi.

 

Nelle parlate meridionali, come il napoletano si tende a vocalizzare la semiconsonante nei dittonghi ascendenti: /'buono/

 

Alla descrizione del dittongo va subito affiancata quella dell’iato, perché spesso c’è confusione tra le due cose. Mentre il dittongo, come abbiamo visto, è l’unione di una semiconsonante e di una vocale che formano nell’insieme una sola sillaba, l’iato è la semplice vicinanza di due vocali che restano staccate, formano cioè due silla­be diverse (iato, dal latino hiatus, vuol dire ‘separazione’). Si ha l’iato:

 

- quando non sono presenti né la i, né la u: aereo, poeta, saetta, le one, ca os;

- quando la i o la u sono toniche: sia, due, via, Caino, paura (e anche in viale, pauroso, e in sciare, perché si avverte la derivazione dalle forme con i e u toniche);

- dopo il prefisso ri- (riesco, riapro) e dopo bi- e tri- (biennio, triennio), perché in questi casi si avverte ancora l’autonomia del primo elemento.

 

Nella poesia per ragioni metriche (computo delle sillabe) un iato può formare unica sillaba (sineresi) e un dittongo può essere scisso e formare due sillabe (dieresi). La dieresi si marca con due punti sovrapposti alla semiconsonante o semivocale. Un esempio di entrambi i fenomeni è il quinto verso del sonetto di Ugo Foscolo Alla sera: e quando dal nevoso aere inquïete.

Un confronto con la grafia comune

Fonologia

Mettiamo ora a confronto il sistema di trascrizione «scientifica» e il sistema della grafia comune della lingua italiana. A ogni fonema (rappresentato con l’alfabeto dell’API) si affianca il corrispondente grafema, ossia il segno grafico (una o più lette­re) della nostra scrittura d’uso corrente.

 

Vediamo la tabella seguente:

 

Pronuncia e grafia delle vocali e semiconsonanti

Fonologia

Nella scrittura comune disponiamo di sole cinque lettere (a, e, i, o, u) per rappre­sentare nove fonemi diversi. Di conseguenza, con questa scrittura non si nota la di­stinzione tra e aperta e chiusa, tra o aperta e chiusa, e non si riconoscono immediata­mente le semiconsonanti i e u che sono nei dittonghi.

Per la pronuncia delle e e o esiste in Italia una grandissima difformità fra regione e regione. In verità, sono pochissime le parole di uso comune che si distinguono soltanto per effetto di questa differenza di pronuncia; i casi più frequenti sono:

 

legge    =         /ꞌlεddʒe/ dal verbo leggere, e /ꞌleddʒe/ ‘norma’;

pesca    =        /ꞌpεska/ il frutto, e /ꞌpeska/ dal verbo pescare;

venti =             /ꞌvεnti/ ‘correnti d’aria’, e /ꞌventi/ il numero;

botte =            /ꞌbɔtte/ ‘percosse’, e /ꞌbotte/ il recipiente per il vino;

volto =            /ꞌvɔlto/ dal verbo volgere, e /ꞌvolto/ ‘viso’;

colto =            /ꞌkɔlto/ dal verbo cogliere, e /ꞌkolto/ ‘istruito’;

porci =           /ꞌpɔrtʃi/ ‘maiali’, e /ꞌportʃi/ dal verbo porre.

 

Ma si sa che il contesto del discorso aiuta a eliminare le confusioni, sicché l’uso difforme dal modello fiorentino rappresenta, ormai, soltanto una caratteristica regionale (gradevole o fastidiosa secondo... i gusti di chi ascolta!).

Il riconoscimento della e aperta o chiusa è più facile quando tali vocali si trovano in fine di parola. Per tali casi è possibile dare un’indicazione abbastanza facile da ricordare:

 

- hanno la e finale aperta, da segnare con l’accento grafico grave, soltanto è, cioè, caf­fè,, purè, gilè, ohimè, ahimè;

- in tutti gli altri casi la e finale è chiusa e va segnata con l’accento grafico acuto ( / ): tra questi segnaliamo le congiunzioni composte con che (ché, perché, poiché, benché..), il pronome , la negazione , le forme del passato remoto di alcuni verbi (poté, godé, temé).

 

Per gli altri casi si possono dare le seguenti indicazioni di massima:

 

- la e è generalmente aperta nel dittongo (viène, piède), nei gerundi in -èndo (vedèndo, leg­gèndo), nei participi in -ènte (lucènte, ridènte), nelle terminazioni in -èllo (uccèllo, bèllo), in      -ènza (presènza, sciènza), nei condizionali (dovrei);

- la e è generalmente chiusa nelle terminazioni in -ménte (negli avverbi: certamente, liberaménte), in -mento (documénto, avvéniménto), nell’infinito in -ére (vedére), nelle desinenze del futuro semplice (andremo), dell’imperfetto indicativo e congiuntivo di 2a coniugazione (leggévo, leggéssi), nei diminutivi in -étto (cassétto, biciclétta, borsétta);

- la o è generalmente aperta nel dittongo (buòno, luògo, cuòre), salvo che non si tratti della terminazione -uóso (affettuóso, delittuóso); in tutte le parole tronche (però, andò);

- la o è generalmente chiusa nelle terminazioni in -ónte (mónte), -óso (amoróso, costóso), -zióne (azióne, stazióne).

 

Pronuncia e grafia delle consonanti

Fonologia

Il confronto dato poco sopra dimostra che ci sono, nel nostro alfabeto, lettere con due valori (c = /k/ e /tʃ)/; g = /g/ e /dʒ/; s = /s/ e /z/; z = /ts/ e /dz/) e che, d’altra parte, si usano gruppi di due o tre lettere per esprimere un solo suono (è il caso di ch, gh, ci, gi, gn, glo gli, sc o sci); questi raggruppamenti di due o tre lettere che espri­mono un solo suono si chiamano rispettivamente digrammi e trigrammi.

 

Nella struttura fonologica dell’italiano esistono due costrittive alveolari spiranti, una sorda /s/ e una sonora /z/, anche se nella scrittura comune esse sono rappresentate dallo stesso grafema s. Nella pronuncia, la distinzione è fatta abbastanza concordemente da tutti i parlanti quando si trat­ta di suono all’inizio della parola (/ꞌsale/, /ꞌsanto/, e /ꞌzbirro/, /ꞌzbattere/), mentre c’è molta difformità quando il suono è all’interno della parola e tra due vocali: nell’Italia settentrionale prevale nettamente la pronuncia sonora /z/ (ꞌkaza/, /ꞌrɔza/), in Toscana si ha una percentuale pari dei due tipi /ꞌkaza/, /ꞌrɔza/), nell’Italia meridionale prevale invece nettamente la pronuncia sorda /s/ (/ꞌkasa/, /ꞌrɔsa/).

Ma, come nel caso delle e o o aperte e chiuse, questa diversa pronuncia non porta quasi mai a confusioni di parole, sicché rappresenta, ormai, soltanto una caratteristica regio­nale. Si va diffondendo, comunque, la pronuncia di tipo settentrionale, cioè con s intervocali­ca sempre sonora.

Anche per la z iniziale c’è differenza tra Nord, Centro e Sud: al Nord prevale la pronuncia sonora (/dz/), e questa tendenza si va diffondendo nel resto d’Italia (si dice abbastanza spesso /ꞌdzio/, /ꞌdzappa/, ecc.).

 

Chiariamo, inoltre, un particolare che riguarda anche le vocali. La i che si trova dopo e e g davanti ad a, o, u (ad es. in giallo, giovane, giunco) è un semplice segno grafico, che serve a dare valore di suono palatale alla lettera g, e non rappresenta un suono vocalico autonomo: quindi non forma dittongo con la vocale successiva, né può, ovviamente, essere contato come sillaba (come invece può accadere in parole come vieni, siede, ecc, pronunciabili con dieresi: vi-eni, si-ede).

Invece, in parole come cielo, cieco, scienza, coscienza, la i, anche se non si fa sentire nella pro­nuncia, è una vera semiconsonante che forma dittongo con la e successiva: e quindi è possibile la lettura con dieresi (ci-elo, ci-eco, ecc.).

La sillaba

Fonologia

Per sillaba si intende un’unità costituita da un fonema o da un gruppo di fonemi che si pronuncia come una unità indivisibile e quindi senza pausa di voce allinterno.

 

Ogni sillaba deve obbligatoriamente presentare una vocale, attorno alla quale possono figurare suoni consonantici, semiconsonantici, semivocalici. La vocale costituisce il nucleo della sillaba, mentre la consonante (o le consonanti) che può precedere la vocale forma l’attacco della sillaba. L’eventuale consonante che segue la vocale costituisce la coda della sillaba. Nucleo e coda formano la rima della sillaba. Diamo di seguito lo schema della sillaba e al di sotto analizziamo le quattro sillabe della parola elefante.

 

 

Lo schema ci fa capire come si distinguono i confini tra una sillaba e l’altra. Perché abbiamo diviso la parola elefante in quel modo e non, per esempio, così: el-efa-nte?

I criteri per la divisione in sillabe sono i seguenti:

 

- ogni sillaba, abbiamo detto, deve contenere una vocale e non più di una (si intende vocale fo­nica e non il segno grafico di una vocale, che può avere altri valori);

- i dittonghi (ia, ie, ua, ue, ecc.) e i trittonghi (uoi, tei, ecc.) sono indivisibili (qua è una sillaba; tuoi è una sillaba; vie-ni sono due sillabe; guer-ra sono due sillabe);

- le vocali in iato appartengono a due sillabe diverse (vi-a; vi-a-le; pa-e-se);

- le consonanti scempie (cioè singole) fanno sillaba con la vocale seguente (mi-ra-co-lo), costituendone l’attacco;

- i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro possono presentare casi diversi:

a) se si tratta di un gruppo che ricorre anche all’inizio di una parola italiana, tut­to il gruppo fa parte della stessa sillaba (ne costituisce l’attacco), insieme con la vocale successiva: a-cre (come cre-ta); a-pri-le, co-pri-re (come pri-ma); rospo, o-spi-te (come spi-na); a-spro, a-stro (come spre-co, stra-no);

b) se il gruppo nell’insieme non ricorre all’inizio di una parola italiana, le conso­nanti vengono divise tra le due sillabe: on-da, ar-co, cam-po, en-tro, tec-ni-ca, ab-di-ca-re, ecc. (dato che non esistono nella nostra lingua parole che cominciano con nd-, re-, ecc.);

- le consonanti o i gruppi di consonanti in fine di parola (ciò capita con le parole prese in prestito da altre lingue) fanno sillaba con la vocale precedente: sport è parola di una sillaba; stan-dard, re-cord sono di due sillabe;

- ovviamente i digrammi e trigrammi (eh, gh, gn, gli, ecc.) non si dividono mai tra sillabe diverse.

 

Infine notiamo:

- le sillabe che finiscono in vocale (e cioè non hanno la coda) si dicono aperte (o libere), quelle che finisco­no in consonante (e cioè hanno la coda) si dicono chiuse (o implicate);

- le parole di una sola sillaba (anche se di una sola vocale) si chiamano monosil­labi (dal greco mònos ‘unico’); quelle di più sillabe, polisillabi (dal greco polys ‘mol­to’), ma queste poi si dividono in bisillabi, trisillabi, quadrisillabi, ecc.

 

L’accento fonico e l’accento grafico. Enclitiche e proclitiche.

Fonologia

Le vocali, oltre ad essere il perno su cui si appoggia l’intera sillaba, sono anche portatrici dell’accento. Ci riferiamo qui all’accento che si avverte comunque nella pro­nuncia delle parole e che si chiama accento fònico, e non al segno grafico che si mette solo in alcuni casi e si chiama accento grafico.

 

Nella lingua italiana le parole che hanno più di una sillaba hanno una vocale «più forte» delle altre: su questa vocale infatti s’appoggia l’«accento», che consiste in una espirazione d’aria fatta con più forza (si chiama accento espiratorio o dintensità). Ad esempio, nella parola volare lo sforzo maggiore della voce è sulla a; nella parola pecora è sulla e.

 

La vocale su cui cade l’accento si chiama vocale tònica. Le altre vocali della stessa parola si chiamano àtone (ossia ‘senza accento’). Ciò che riguarda la vocale riguarda in realtà l’intera sillaba che la contiene, e perciò diciamo che nelle parole polisillabiche esistono sillabe toniche e sillabe atone.

 

Nelle parole polisillabiche della nostra lingua l’accento tonico può trovarsi:

- sull’ultima vocale e sillaba: città, virtù, caffè, perché, partì, portò (parole tronche o ossitone;

- sulla penultima vocale e sillaba: vedo, cavallo, ascensore, appartamentino, canterei (parole piane o parossìtone);

- sulla terzultima vocale e sillaba: semplice, vengono, albero, contenterebbero (parole sdruc­ciole o proparossìtone);

- sulla quartultima vocale e sillaba: considerano, stimolano (parole bisdrucciole);

- sulla quintultima vocale e sillaba: ordinamelo, revocaglielo (parole trisdrucciole).

 

Nella pronuncia di parole lunghe o composte si ravvisa un accento primario (marcato negli esempi seguenti in grassetto) e un accento secondario (negli esempi, in carattere normale): précipitóso, vélocizzàre, càpostazióne, móntacàrichi.

 

In italiano l’accento ha funzione fonematica o distintiva, serve cioè anche a distinguere le parole. Si prenda ad esempio la triade pitano, capino, capita: la prima parola con accento sulla quartultima sillaba è la III persona plurale del presente indicativo del verbo capitare; la seconda parola con l’accento sulla penultima sillaba è un nome; la terza parola è la III persona singolare del passato remoto del verbo capitanare.

Per quanto riguarda la scrittura normale, nella lingua italiana laccento grafico — distinto in acuto ( / ) solo per le e e le o chiuse, e grave per tutti gli altri casi — si segna obbligatoriamente solo sulle parole tronche (oltre che su alcuni monosil­labi tonici, di cui diciamo qui appresso). È utile segnarlo anche in alcune parole sdruc­ciole che possono confondersi con altre piane: séguito rispetto a seguìto; còmpito / com­pìto; àncora / ancóra. In ogni caso, incontrando queste parole, bisogna osservare bene il contesto per individuare l’accento.

Nei plurali dei nomi uscenti al singolare in /-jo/ talvolta viene segnato l’accento circonflesso (ˆ): es. esercizioesercizî.

Le parole monosillabiche possono essere di due tipi:

- alcune hanno il proprio accento fonico, e quindi sono monosillabi tonici; molti di essi richiedono anche l’accento grafico (è,,, ecc.);

- altre non hanno un proprio accento fonico, e quindi sono monosillabi atoni. Questi, nella pronuncia, si appoggiano o alla parola che precede, e si definiscono en­clìtiche se si legano alla parola piena precedente (ad esem­pio le particelle pronominali mi, gli, me + lo, in sentimi, scrivigli, compramelo, ecc.), o alla parola piena che segue, e si definiscono proclìtiche (non voglio, lo vedo; glielo dico, te lo dico, il vento).

 

Tra i monosillabi tonici prendono l’accento grafico solo quelli che nella scrittura possono con­fondersi con altri monosillabi atoni dello stesso suono. Ecco degli esempi (qui la lista completa):

è (verbo essere) / e (congiunzione); (verbo dare) / da (preposizione); (avverbio) / la (articolo o prono­me).

Diversi dai monosillabi accentati (che abbiamo passato in rassegna ora) sono quelli apostrofati (po’, da’, ecc.) dei quali trattiamo nel paragrafo seguente, a proposito del troncamento.

 

Fenomeni fonetici di giuntura

Fonologia

Nel nostro parlare effettivo, noi non stacchiamo le parole l’una dall’altra, come le vediamo in un testo scritto, ma le pronunciamo a gruppi compatti e dando rilievo agli accenti di alcune parole più significative. Una frase come «Sono le otto, è già ora di uscire» viene pronunciata normalmente in questo modo (segniamo anche gli accenti di diversa intensità):

 

sónoleòtto èggià óradiuscìre

 

o anche, se si parla con ritmo più veloce,

 

sonleòtto eggiaóraduscìre.

 

Strette in tal modo, le parole subiscono alcune modifiche nei punti di giuntura: si hanno così i fenomeni fonetici di giuntura (o feno­meni di «fonetica sintattica»), tra i quali sono più importanti l’elisione, il troncamen­to e il raddoppiamento iniziale. Questi fenomeni sono presenti anche nella nostra fra­se di esempio, come mostreremo via via qui di seguito.

Elisione

Fonologia

Si chiama «elisione» la caduta di una vocale atona finale di una parola davanti alla vocale iniziale della parola successiva. Nella scrittura l’elisione si indica con l’apo­strofo (’).

 

L’elisione è obbligatoria con gli articoli lo e la (e relative preposizioni articolate), con quello e bello, e con una; è facoltativa con gli, rara con le: lanimo, lerba, nellaria, dallumido, quellangolo, bellesempio, unonda, unepoca, glindividui (o gli individui), larmi (poetico; normalmente le armi). Inoltre è frequente con di: doro, duso, daccor­do; non rara, nel parlato, con le particelle pronominali mi, ti, si, vi, ne, ecc.: maccorsi, taspetto, soffende (ma scrivendo si preferisce mi accorsi, ti aspetto, si offende).

 

Nella nostra frase di esempio l’elisione è avvenuta, nella pronuncia più veloce, fra di e uscire: si è avuta così la pronuncia duscire, che nella scrittura si rende con duscire.

E evidente che con l’elisione si evita l’incontro di due vocali che formerebbero un iato: lo animo, la erba, nella aria, di oro, di uso, ecc. L’iato richiede sempre uno sforzo maggiore nella pronuncia, e questo sforzo si elimina quando è possibile.

 

 

Troncamento

Fonologia

Si chiama invece «troncamento» (o anche «apòcope» la caduta di una vocale atona finale, o di una sillaba atona finale di una parola, non per effetto della presenza di una vocale successiva, ma per un fenomeno di spontaneo snellimento della giuntu­ra con la parola successiva. Tale snellimento si verifica però soltanto se la vocale che cade è una e o una o (raramente una i), se è preceduta da l, r, n (e talvolta m), e purché il suono iniziale della parola seguente non sia s + consonante (detta s impura), z, gn, x, ps.

 

Anche il troncamento, come l’elisione, riguarda soprattutto gli articoli e le prepo­sizioni articolate, gli aggettivi indefiniti, l’aggettivo dimostrativo quello e, inoltre, tale, quale: il cane, del pane, un bicchiere, un amico, alcun dovere, nessun paese, quel ragazzo, un tal personaggio, nel qual caso. Si verifica normalmente anche negli aggettivi buono, bello, grande, santo (spesso preposti ai nomi), in alcuni dei quali si tronca l’intera silla­ba finale: buon amico, buon gelato, bel paesaggio, gran festa, san Giovanni (ma santAn­tonio). Si ha anche con frate e suora (fra Cristoforo, suor Gilda, suor Angela). Altrettan­to frequente è con i «titoli»: signor Martini, dottor Contini, professor Bianchi, ecc.

Presentano ancora il troncamento, quando si trovano in locuzioni tipiche e piut­tosto cristallizzate, le parole male, amore, colore, fiore, fino, fine, bene; ad es.: mal di testa, mal di mare, mal visto, amor proprio, color di rosa, fior di quattrini, fin qui, fin di vita, ben fatto. È frequente con varie voci verbali: con gli infiniti (voler bene, far bene, dir male, saper fare, ecc.) e con alcune forme del presente di essere e avere (son pronto, han detto)Nella frase di esempio citata all’inizio c’è il troncamento di sono in son, ma solo nella pronun­cia più veloce.

 

L’uso del troncamento è molto più esteso nella lingua letteraria e specialmente in poesia (ma la poesia moderna evita il più possibile questi tratti).

Casi particolari di troncamento sono: po’ per poco; to per togli (talvolta toh, come beh invece di be’, che deriva da bene); e da’, di’, fa’, sta’, va’, forme di 2a persona singolare dell’imperativo dei verbi dare, dire, fare, stare, andare. Tutte queste forme troncate si possono avere davanti a qualsiasi consonante iniziale e anche in fine di frase: un po strano; aspetta un po’; fa stendere i panni; sta zitto. La parola piede viene troncata in piè (e non in pie’) nelle locuzioni a piè fermo, a piè di pagina, ecc.

Raddoppiamento

Fonologia

Il raddoppiamento (o anche rafforzamento) iniziale è il fenomeno per cui la consonante iniziale di una parola può essere raddoppiata quando è preceduta da de­terminate parole uscenti in vocale. Tale raddoppiamento, che si avverte nella pronuncia ma non viene registrato nella nostra scrittura comune, è provocato quindi dalla fine della parola precedente e ciò accade quando questa è:

 

- una parola tronca (che per iscritto porta l’accento grafico): perché ridi? si pro­nuncia /per'ke 'rridi/; andò via / an'do 'vvia/; sarà fatto /sa'ra 'ffatto/;

- un monosillabo tonico (che porti o no l’accento grafico): è lui /'ε 'llui/; là so­pra /'la 'ssopra/; ho freddo /'ɔ 'ffreddo/; so tutto /'sɔ 'ttutto/. Nella nostra frase di esempio il fenomeno è presente tra è e già, che danno èggià;

- alcuni monosillabi atoni (a, e, o, ma, se, tra, fra, che, chi): a Roma /a 'rroma/; e tu /e 'ttu/; se credi /se 'kkredi/.

 

La scrittura normale non tiene conto di questo fenomeno, a meno che le due parole non siano già stabilmente unite; in tal caso il raddoppiamento si trova incorporato: vedi le parole soprattutto, soprammobile, cosiddetto, contraddire, appena, chissà, ossia, vattene, ecc.

 

Il raddoppiamento iniziale è normale in tutta l’Italia centro-meridionale e particolarmente esteso in Toscana (dove si ha pure dopo da, dove, come). Manca, invece, nella pronuncia tipica dell’Italia settentrionale, dove è generale la mancanza di consonanti doppie.

Bibliografia

Fonologia

 

Fonetica e ortografia