7. Il lessico della gastronomia

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Il lessico della cucina è caratterizzato da una grande, straordinaria varietà: varietà interna, in primo luogo, dovuta all’apporto multiforme dei dialetti alla lingua unitaria, soprattutto nel Novecento e nel secondo dopoguerra, quando la più ampia circolazione dei prodotti, l’intervento talora decisivo dell’industria alimentare, il costituirsi di un mercato su base nazionale prima e internazionale poi, hanno determinato l’emergere e l’affermarsi del patrimonio dialettale nella lingua nazionale. Con le casse dei maccheroni che già nel Gattopardo si immaginano in viaggio dal sud al nord d’Italia, hanno percorso la penisola termini e prodotti ormai entrati a pieno titolo in un patrimonio condiviso.

 

E poi varietà esterna, nel duplice aspetto dei termini stranieri (francesi, inglesi, ma ormai anche di altre lingue) entrati nella lingua della gastronomia, in tempi e con modi differenziati, e dei termini italiani che hanno fatto fortuna nel mondo. In questo senso, il settore del cibo e della cucina si presenta come uno dei più ricchi, dinamici, suggestivi, se non il più importante in senso assoluto. L’immagine dell’Italia all’estero o presso gli stranieri è strettamente, intimamente legata all’idea del suo cibo, che costituisce un modello di unanime apprezzamento, si direbbe quasi un mito (si pensi alla sensazionale, universale fortuna della parola pizza). Fra termini tradizionali e termini più moderni, in diversi livelli di pratica culinaria e corrispondenti valori sociali, il cibo italiano è un fattore potente di identità interna e di identificazione del concetto e dell’immagine dell’Italia all’estero.

7.1. Geosinonimi e dialettismi culinari

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Ciò che caratterizza principalmente la lingua della cucina in Italia è la varietà. Come non ricordare che il caffèlungo di Roma e Milano corrisponde a quello alto di Firenze, a quello lento di Catania, a quello allungato di Cagliari e a quello mollo di Genova? Si tratta di 'geosinonimi', ossia vocaboli che hanno lo stesso significato, ma che sono usati in aree geografiche diverse all'interno della stessa lingua.

 

Oltre ai geosinonimi, la lingua della cucina è caratterizzata dalla presenza di molte parole di provenienza dialettale. Come ha scritto Giovanna Frosini: «Sono termini originariamente piemontesi fontina, grissino e gianduiotto; lombardi gorgonzola, mascarpone, stracchino, minestrone, osso buco, brasato, e panettone; veneti lingua salmistrata, musetto, (carne) a scottadito; emiliani zampone, piadina; romaneschi abbacchio e supplì […]; dall'Italia mediana provengono amatriciana, saltimbocca, porchetta, carciofi alla giudia; è meridionale il caciocavallo, meridionali scamorza, taralli, calzone, panzerotto, pastiera; siciliana la cassata. […] Di provenienza emiliano-romagnola sono le tagliatelle (tajadèl di Bologna) […]; così le paste ripiene più famose, i tortellini (bologn. turtlein; nell'italiano antico tortelli, tortelletti valgono ‘pezzi di impasto, con o senza sfoglia di pasta'; il Dizionario moderno di Panzini, nel 1905, registra finalmente tortellini e tortelli col significato attuale), e i cappelletti (i romagnoli caplett; in lingua già in una lettera di Leopardi, e Cappelletti all'uso di Romagna in Artusi ); mentre gli agnolotti provengono, almeno per il nome, dal Piemonte (agnolôt, agnölot). Dal Nord Italia giungono il lombardo risotto (attestato dalla metà dell'Ottocento) e le trenette (da trena ‘cordoncino'), liguri al pari del pesto; sono entrate nell'uso nazionale le romane fettuccine».

 

Da questa lista di termini si avverte subito che molti di questi dialettismi sono entrati nella lingua standard grazie alla circolazione e alla conoscenza di prodotti e pietanze che venivano preparate originariamente solo in piccole realtà territoriali. Oggi, ad esempio, è facile trovare una cassata in qualsiasi pasticceria, ma quanti chilometri si è disposti a fare per gustare in Sicilia quella "vera"?

7.2. Italianismi gastronomici

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Gli italianismi nel mondo costituiscono un fenomeno di grande ampiezza, che registra, secondo le indagini più recenti, oltre ventimila parole e interessa un numero non definito, ma comunque alto, di lingue. La maggior parte degli italianismi, cioè delle parole italiane più diffuse all’estero, viene dal mondo della cultura. Tuttavia, sono molto diffuse anche le parole della cucina, come mostra il numero degli italianismi relativi all’alimentazione entrati in inglese nel Novecento: nella prima metà del secolo rappresentano infatti un quarto del totale, sono circa la metà nel periodo successivo e giungono a superare il 70% verso la fine.

 

Termini d’origine italiana relativi alla gastronomia si ritrovano nelle lingue europee già nel XVI secolo: ad esempio, maccheroni nella forma adattata macarrones è attestato per la prima volta in spagnolo nel 1517 (macarons, poi macaroni in francese, 1599; macaroni in inglese, 1599); sono di diffusione molto antica pure mortadella in francese (mortadelle, XV secolo) e vermicelli in francese (vermicelle, 1553) e inglese (vermicelli, 1669); parole come antipasto, polenta, bologna sono documentati nei dizionari inglesi a partire dal Cinquecento; le lasagne entrano in francese nello stesso secolo; risale invece alla fine del Settecento la fortuna internazionale della parola confetti; mentre le pappardelle e il panettone fanno il loro ingresso in inglese alla fine del XIX secolo.

 

Numerosi gli italianismi gastronomici recenti, molti dei quali connessi fortemente al fenomeno dell’emigrazione: così, ad esempio, la fortuna americana di termini come lasagne (1846), salami (1852), risotto (1855), ricotta (1877), spaghetti (1888), mozzarella (1911), rigatoni (1923), scampi (1923), ziti, zucchini, prosciutto (1929), pizza (1935) è da mettere in relazione con la forte presenza della comunità di italo-americani.

 

Ma il fenomeno dell’italianismo è vivissimo soprattutto nel Novecento, e particolarmente negli ultimi decenni, grazie al rinnovato prestigio della nostra lingua nel mondo legato al successo internazionale dei prodotti made in Italy, sinonimo di eccellenza e di qualità, nei settori della gastronomia, della moda, delle produzioni manufatturiere. Col diffondersi all’estero di nuovi prodotti e piatti della cucina italiana, si assesta un folto gruppo di italianismi gastronomici: non vi è ormai luogo del pianeta in cui non si conoscano e si utilizzino termini come pizza (oggi la parola italiana più nota nel mondo insieme a ciao), spaghetti, espresso e cappuccino, seguiti da cannelloni, mortadella, panna, ravioli, risotto, salame, mediamente noti in una trentina di lingue. Dagli anni settanta e ottanta del Novecento si sono rapidamente affermati, tra gli altri, bruschetta, carpaccio, ciabatta (reso plurale nella forma ciabattas), pesto, rucola, tiramisù (una parola presente in oltre venti lingue, tra cui giapponese, indonesiano, thai e laotiano). Non mancano infine termini anche più specifici, quali ad esempio parmigiano, mozzarella, olio d’oliva, aceto balsamico, così come fra i formati di pasta le farfalle sono ormai conosciute quasi quanto le tagliatelle.

7.2.1. Pizza

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La pizza ― focaccia di pasta rotonda condita con olio, salsa di pomodoro, mozzarella o altri ingredienti e cotta al forno, specie a legna ― è uno degli alimenti simbolo dell'italianità.

 

Nelle sue due versioni, napoletana (alta e con bordo spesso) e romana (sottile e croccante), non c'è dubbio che la più conosciuta sia la versione "margherita", condita con pomodoro, mozzarella e basilico. Secondo la tradizione questa pizza è stata inventata da Raffaele Esposito, che nel 1889, in occasione della visita delle regina Margherita a Napoli, la preparò così per ricordare i colori della bandiera dell'Italia unita.

 

Varie sono le ipotesi relative all'origine della parola 'pizza': un'origine germanica,­ dall'antico alto tedesco bizzo-pizzo (confronta il tedesco moderno Bissen), registrato con il significato di ‘morso' ‘boccone' ‘pezzo' (M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 5 voll., Bologna, Zanichelli, 1979-1988), o semitica (vedi M. Alinei, E. Nissan, L'etimologia semitica dell'itomo pizza e dei suoi corradicali est-europei, turchi, e dell'area semitica levantina, in “Quaderni di semantica”, XXVIII, n. 1, giugno 2007, pp. 117-136). A supporto di quest'ultima ipotesi, è un dato di fatto che quella che in Italia è conosciuta e si chiama 'pizza' sia imparentata con la pita medio-orientale e turca ― semplice focaccia ― e con la pita araba e balcanica ― farcita e/o condita. Gli studi, infatti, hanno fatto emergere che la diffusione di questo termine riguarda la penisola balcanica, la Turchia e l'intera area araba dell'est, dove la parola pita, in generale, con un'irradiazione dalla sponda sudorientale del Mediterraneo, indica una forma di pane schiacciato, rotondo e poco lievitato. Il termine pizza in passato veniva usato anche per indicare preparazioni dolci, come si può osservare nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi.

 

Pizza rusteca

 

Pigliarraje no ruotolo de sciore e lo mpastarraje co no quarto de nzogna no quarto de zuccaro macenato, e sei ova co tutta la velinia, e si te pare che la pasta fosse no poco tostarella nge miette no pucurillo d'acqua fresca; po farraje na pettola stesa co lo laniaturo, facennola doppia quant'a na pizza, e fatta accossì arravuoglie ottuorno a lo laniaturo, sodognarraje de nzogna na tortiera, e nge miette la pasta; po dinto pe mbottunature, sbattarraje ott 'va sana, no quarto de prorola grattata, e mbruoglieno poco de pepe, e si te nge piace no poco de petrosino ntretato, nne miette la mmità dint'a lo ruoto e mmiezo nge miette no bello saciccio, ca se sapisse comme nge fa saporito, fatto a fellucce, e accussì purzì nge miette no quarto de muzzarella, o provola janca, po nge miette l'auta mbottunatura, e ncoppa nge stienne l'auta pasta frolla comm'a chella de sotto; la farraje cocere a lo furno, o sotto a lo tiesto; e caura caura la farraje sciulià dint'a lo vacile sujo, e l'appriesente.

 

(da La Cucina Teorico-Pratica col corrispondente riposto ed alcune nozioni di scalcare composta dal Signor Ippolito Cavalcanti d. di Buonvicino per uso e divertimento de' suoi amici dilettanti. Con in fine una cucina casereccia in dialetto napoletano, Vittorio Capasso, Napoli 1852, p. 435).

7.2.2. Cappuccino

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Il cappuccino è una bevanda calda di origine italiana a base di caffè e latte reso schiumoso dal vapore prodotto dalla macchina del caffè espresso: cappuccino scuro, con molto caffè; cappuccino chiaro, con poco caffè. Talvolta, per completare, si aggiunge una spolverata di cacao o di cannella in polvere.

Così chiamato dal colore che ricorda quello dell’abito dei frati cappuccini, secondo il Grande Dizionario della lingua italiana di De Mauro, la prima attestazione del nome per indicare una ‘bevanda’ risale al 1905, ma la sua diffusione internazionale iniziò a partire dal secondo dopoguerra.

Fra le parole italiane oggi più diffuse all’estero, cappuccino è presente in circa 40 lingue e, in alcune di esse ha persino determinato la formazione di pseudoitalianismi, cioè parole inesistenti in italiano, create all’estero per associare al prodotto il fascino e il prestigio dell’italianità: così, negli Stati Uniti hanno preso piede alcuni nomi di bevande come “frappuccino” (diventato in poco tempo uno dei prodotti di punta di una nota catena multinazionale di caffetterie), “mocaccino”, “freddoccino”.

Solitamente viene bevuto zuccherato, spesso accompagnato da brioche o croissant. Ultimamente si usa decorare il cappuccino con disegni fatti con il bricchetto del latte o strumenti manuali, utilizzando le moderne tecniche dell’“art coffee o latte art”.

 

Ricetta del Cappuccino

 

Un cappuccino di qualità è composto generalmente da un terzo di caffè, un terzo di latte e un terzo di schiuma.

Procedimento:

· Preparate un espresso dentro una tazza da cappuccino.

· Dentro un bricco di acciaio inossidabile, la cui altezza sia doppia della larghezza, fate scaldare il latte introducendo il beccuccio del vapore della macchina espresso e muovendo a notevole velocità il bricco stesso dall’alto verso il basso e viceversa per ottenere una dose abbondante di schiuma.

· Versate delicatamente nella tazza un’uguale quantità di latte e di schiuma. Se infatti la schiuma o il latte fossero troppo abbondanti l’equilibrio della bevanda sarebbe danneggiato.

· Completate con uno spruzzo di cacao amaro di ottima qualità.

· Adagiate la tazza sopra il piattino, sul quale sia stato adagiato un normale cucchiaino da caffè.

 

(da: Professione Barman, a cura di Camillo Massina, Verona, Demetra, 2000, pp. 36-37).

7.2.3. Tiramisù

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Tra i dolci della tradizione pasticcera italiana il tiramisù è sicuramente uno dei più golosi e amati. Si tratta di un dolce semifreddo a base di biscotti savoiardi (o pan di Spagna), mascarpone, uova e zucchero, ricoperto da un sottile strato di cacao. Nella ricetta originale non è previsto il liquore, in modo da poter essere consumato anche dai bambini e dagli anziani, e la forma originale del dolce è rotonda anziché rettangolare.

Il tiramisù è un dolce ormai conosciuto in tutto il mondo, divenuto davvero internazionale. Basti pensare che il nome di questo dessert è presente in oltre venti lingue, fino al giapponese e all’indonesiano. Non è un caso, infatti, che tra le dieci ricette più rappresentative della tradizione gastronomica italiana, secondo il sondaggio “Le Ricette d’Italia”, promosso via internet dall’Academia Barilla e «La Cucina Italiana» nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ci sia il tiramisù.

 

Diverse regioni italiane rivendicano la paternità della sua ricetta, ma ormai si crede di poter identificare la terra d’origine nel Veneto, probabilmente a Treviso.

 

Piuttosto recente la sua invenzione, visto che la ricetta di questo dolce manca nei libri di cucina precedenti agli anni Sessanta. E fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso la parola che lo identifica non compare nelle enciclopedie e nei dizionari: bisogna aspettare il 1980, secondo quanto riportato nel Grande Dizionario della lingua italiana di De Mauro, per avere la prima attestazione del nome, con evidente derivazione dalla locuzione tirami su. Tuttavia, sfogliando i ricettari pubblicati tra gli anni Settanta e Ottanta, si può trovare la ricetta di questo dolce, ma sotto un diverso nome e cioè “Crema di mascarpone”.

 

Come ogni dolce di successo, anche il tiramisù ha dato origine a una serie, pressoché infinita, di varianti. Alcune prevedono la semplice sostituzione di alcuni ingredienti (i savoiardi invece del pan di Spagna, la panna o la ricotta al posto del mascarpone), altre sono vere e proprie rivisitazioni: ecco allora il tiramisù al cioccolato, agli amaretti, ai frutti di bosco, al limone, alle fragole, all’ananas, allo yogurt, alla banana, al lampone, al cocco e persino alla birra.

 

 

Ricetta del Tiramisù

 

Ingredienti: 500 gr. di mascarpone, 200 gr. di zucchero a velo, 30 biscotti savoiardi, 4 uova, liquore (rum o Marsala), cacao amaro.

 

Preparazione: mezz’ora più due ore per il raffreddamento.

 

In una terrina capace montate a lungo i tuorli con lo zucchero a velo fino a ottenere una crema leggera. Incorporatevi il mascarpone, mescolate con cura affinché il composto sia perfettamente amalgamato. Con una frusta (meglio se elettrica) montate a neve fermissima gli albumi e uniteli con molta delicatezza ma velocemente alla crema di uova in modo da non smontare il composto. Versate qualche cucchiaiata di crema sul fondo di una pirofila o di un altro recipiente da tavola, sistematevi un primo strato di savoiardi inzuppati nel liquore e copritelo con abbondante crema. Solverizzate con un cucchiaio di cacao setacciato. Ricominciate con i savoiardi inzuppati, versatevi sopra tutta la rimanente crema e terminate con abbondante cacao fatto scendere da un setaccio. Fate raffreddare il tiramisù in frigorifero per un paio d’ore prima di servirlo. È un dolce ottimo e di preparazione semplicissima.

 

 

(da: La nostra cucina, a cura di Francesco Soletti, Edizioni della Specola, [S.I.], 1992, p. 426).

7.2.4. I dolci italiani del Carnevale

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Durante la festa del Carnevale, la tradizione gastronomica italiana è ricca di dolci tipici: da nord a sud dell’Italia sono tante le specialità che si possono gustare. Partendo da una base molto semplice, fatta di farina, zucchero, uova e un pizzico di sale, si sviluppano molteplici varianti (circa duecento). Si tratta comunque di dolci semplici da preparare, che hanno nomi, forme, consistenze e contenuti diversi a seconda dell’area geografica da cui provengono, ma in fondo molto simili tra loro.

 

I più famosi sono senz’altro le chiacchiere ‘dolci di pasta fritta tagliata a strisce e cosparsa di zucchero’. Sono chiamate in modi diversi, spesso piuttosto curiosi, in relazione alla regione o città in cui vengono fatte (in linguistica, queste parole che servono a indicare lo stesso oggetto, ma che hanno altra forma a seconda della zona in cui ci si trova sono dette geosinonimi).

 

Vediamone alcuni, in ordine geografico: lattughe nella Lombardia orientale; frìtole, galani, gale, cròstoli, gròstoli e crostoi in Veneto; castagnole (di Sacile) in Friuli; schiumette o sciummette in Liguria; bugìe in Liguria e a Pisa; sfràppole, tortelli di carnevale, frittelle ripiene in Emilia; cenci, stracci, fràppole in Toscana (fiocchi ad Arezzo); castagnole, sfrappe e fiocchetti nelle Marche; castagnole e struffoli in Umbria; frappe, sfrappe nel Lazio (in particolare a Roma); cicerchiata in Abruzzo e Molise (fregnacce a L’Aquila); strùffoli, zèppole di San Giuseppe e fritte in Campania; cartellate e sfoglie in Puglia; calzoncelli in Basilicata; zìppulas e orilletas in Sardegna.

 

Nella ricetta classica, le chiacchiere sono vuote, con evidente allusione alla vuotaggine del contenuto (anche se se ne conoscono numerose varianti ripiene), e forse anche alla spensieratezza del periodo dell’anno in cui si consumano.

 

Ricetta delle Chiacchiere

 

Ingredienti per 8 persone: 300 gr. di farina, 100 gr. di zucchero, 50 gr. di burro, due uova, olio, sale, 100 gr. di zucchero al velo vanigliato.

 

Ponete la farina a fontana sulla spianatoia, incorporatevi le due uova intere, il burro fuso, lo zucchero e una presa di sale. Manipolate a lungo gli ingredienti aggiungendo qualche cucchiaiata di acqua tiepida, se la pasta risultasse troppo solida. Lavoratela per circa un quarto d’ora poi lasciatela riposare per un’ora in luogo caldo, avvolta in un tovagliolo infarinato. Stendete la pasta con il matterello in una sfoglia molto sottile poi ritagliate in questa con la rotellina dentata tanti “nastri” lunghi una decina di centimetri, che annoderete come fossero cocche. Buttateli, pochi alla volta, nell’olio bollente per farli diventare croccanti. Fateli colare dall’unto di cottura su una carta assorbente poi spolverizzateli di zucchero al velo vanigliato.

 

(da: G. Bonomo, Il Nuovo Libro di Cucina Curcio, Milano, Armando Curcio Editore, 1976, pp. 716-717).

7.2.5. La pasta e i suoi formati

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Nota già ai romani e ad altri popoli delle regioni del Mediterraneo, l'uso della pasta si diffuse a partire dal Medioevo. In questo periodo gli arabi introducono in Sicilia la pratica dell'essiccazione, tecnica che avrebbe permesso l'esportazione e la commercializzazione del prodotto. A differenza dei metodi di cottura e di uso attuali, nel Medioevo la pasta veniva sottoposta a una cottura dai tempi lunghissimi e veniva poi usata come contorno, per accompagnare la carne, come tutt'ora avviene nella tradizione tedesca. Inoltre, il modo più comune di condirla era con burro, cacio e spezie dolci.

 

Soltanto nel XVIII secolo sarebbe comparso l'abbinamento col pomodoro. Dal Seicento, poi, la pasta diventa "piatto unico", affermandosi soprattutto a Napoli, dove gli abitanti da "mangiafoglie" (avevano una dieta povera, a base di cavolo) iniziarono ed essere soprannominati "mangiamaccheroni". I nomi di pasta sono vari e spesso sono legati all'uso locale. Lo stesso termine maccherone nell'Italia meridionale, ad esempio, indica qualsiasi tipo di pasta, mentre più generalmente è usato per indicare una pasta a forma di tubo di diverse dimensioni. Molti dei nomi di pasta, poi, nascono per associazioni di idee, come le sorprese, tipo di pasta da brodo simile al cappelletto ma priva di ripieno. Inoltre, nomi di origine dialettale si sono affermati nell'uso comune, come i romagnoli cappelletti e le romane fettuccine; altri, invece, pur essendo registrati come formato di pasta commercializzato da marchi noti, restano pur sempre legati a un uso territoriale, come gli sciviotti dei pastifici Granoro e Tamma, pasta a forma di tubo, arcuata, rigata o liscia, diffusi soltanto tra Basilicata, Campania e Puglia.

 

Uno dei formati di pasta più conosciuti all'estero sono gli spaghetti, che, in realtà, sono molto più "giovani" dei vermicelli. Questi ultimi, infatti, compaiono nei ricettari fin dal XIII secolo, a differenza degli spaghetti, registrati per la prima volta nell'Ottocento nel Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini.

 

Zuppa di Tagliolini

 

Impastate della farina con quattro, o sei uova, e un poco di sale, secondo la quantità della pasta, che volete fare, maneggiatela, che non sia tanto dura, nè tanto tenera; fatela un poco riposare, stendetela poscia collo stenderello fina come la carta, o tutta in una volta, o in diversi pezzi. Lasciatela alquanto asciugare, indi involtatela a cartoccio, e tagliatela fina a guisa di tanti filamenti. Fate bollire il suage, o altro brodo buono alquanto colorito, giusto il sale, poneteci dentro li tagliolini quella quantità, che richiede la dose del brodo, fateli bollire mezzo quarto d'ora, che non siano nè molto spessi, nè moltobrodosi, e li servirete uniti ad un tondino di parmigiano grattato.  (da L'Apicio Moderno di Francesco Leonardi, 1807-1808, pp. 38-39).

 

Una ricetta speciale: Spaghetti alla Gennaro

7.3. Hamburger, omelette, sushi e kebab: parole straniere in cucina

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La lingua della gastronomia è caratterizzata dalla convivenza di termini locali, che riflettono tradizioni regionali, e termini stranieri, di origine diversa, molti dei quali entrati già da molto tempo nella nostra lingua e conservati fino ad oggi: tra Quattro e Cinquecento, per esempio, arrivano dalla Spagna le parole capirotta ‘specie di zuppa’, mirasto ‘vivanda costituita da un pasticcio di volatili o pollame arrostiti a metà, poi lessati in brodo, con aggiunta di spezie, mandorle, zucchero e succo d’arancia e di limone’ (compresa fra le “minestre” nella cucina rinascimentale) e torrone; nel Cinquecento inizia a circolare il cuscùs di origine araba; dalla Francia del Settecento provengono le voci ragù, bignè, croccante, sciampagna (poi nella forma non adattata champagne).

 

Oggi, la lingua della cucina è molto ricca di forestierismi, che sempre più spesso entrano nella nostra lingua come prestiti non adattati. Ma non tutte le lingue straniere hanno pesato nello stesso modo.

 

L’influsso più importante (sul piano della quantità di parole trasmesse all’italiano e della continuità dei prestiti) è stato quello francese, favorito dalla vicinanza geografica e dal prestigio della cucina francese in Europa. Molti dei francesisimi gastronomici si stabilizzano nei primi decenni del Novecento e si sono conservati nella forma integrale o non adattata: per esempio béchamel, bon bon, brioche, buffet ‘credenza’, e ‘rinfresco’, charlotte, crème caramel, uova à la coque, dessert, entre-côte, frappé, julienne, marrons glacés, omelette, soufflé, oltre naturalmente a menu. Nella seconda metà del Novecento la pressione esercitata dal francese sull’italiano si attenua, registrando qualche termine specialistico, come crudités (1989), [insalata] niçoise (1958), profiterole (1957), quiche (1989), vinaigrette (1989), e naturalmente nouvelle cuisine (1986), da mettere in relazione con la fortuna di questa nuova moda gastronomica.

 

L’importanza e la profondità dell’influsso germanico sono state da sempre profonde. Bisogna però arrivare alle soglie e ai primi anni del Novecento per trovare i primi prestiti crudi: krapfen (1891), würstel (1905), strudel (1905) e i prodotti della gastronomia, in primo luogo.

 

Più recente il contributo dell’inglese e dell’anglo-americano alla lingua italiana della cucina, conseguenza degli effetti del consumismo filo-americano sulla cultura alimentare italiana, e più in generale occidentale, che ha visto ad esempio una diffusione massiccia delle catene dei fast-food (1982): abbiamo così nella nostra lingua quotidiana prestiti integrali come breakfast, brunch (1983), cake e plum cake, chips ‘patatine’ (1989), cornflakes (1965), hamburger (1963), hot dog (1950), ice cream, ketchup (1957), long drink e soft drink (1957, 1986), popcorn (1958), snack (1959), conosciuti da grandi e bambini. I contatti con la cultura anglo-americana hanno favorito il passaggio anche di tecnicismi come cutter, mixer (1970) fra le attrezzature, e di finger-food (2005) ‘cibo preparato in piccole porzioni, in modo da poter essere mangiato con le dita’, modellato su fast-food e simili, che negli ultimi anni ha conosciuto una rapida e notevole diffusione.

 

Tra i prestiti non adattati di altra provenienza, in gran parte entrati di recente nell’italiano, si ricordano la paella spagnola, i taco(s) messicani, il greco tzatziki ‘salsa a base di yoghurt, aglio e cetrioli’. Spostandoci verso il Giappone, si hanno le parole surimi ‘cibo a base di pesce, arricchito di condimenti e conservato freddo’ e sushi ‘pesce freddo crudo, tagliato in piccoli bocconi’, oggi usatissime. Di ingresso recente sono anche il kebab turco ‘spiedo di carne arrostita di montone o di agnello’, e il fala(f)fel ‘polpettina di farina di ceci con prezzemolo e spezie’, divenuti popolari in Italia grazie alle immigrazioni provenienti dal Medio Oriente.

 

Un ultimo sguardo infine alla Cina, da dove viene ad esempio la nota salsa piccante shantung.