1. Un popolo che si muove: realtà e stereotipi

Migrazioni

Quando si parla dell'emigrazione italiana si pensa in generale ad alcune immagini, che i giornali riproducono tutte le volte che il tema ritorna di attualità: la donna italiana appena arrivata con il figlio a New York, la nave piena di viaggiatori di terza classe ritratta dal grande fotografo Stieglitz (sembra che vada in America invece ne torna), l'emigrato appena sceso dal treno con la valigia di cartone legata con lo spago alla stazione di Milano...

 

Sono documenti suggestivi, ma la vicenda dei movimenti di popolazione italiani è assai più varia e complessa: c'è stata una lunga fase di migrazioni stagionali soprattutto nelle zone montane durata vari secoli; le migrazioni verso le Americhe hanno interessato non solo i contadini meridionali ma anche molte aree del nord, in particolare il Veneto, e non si sono interrotte subito dopo la prima guerra mondiale ma sono riprese nel secondo dopoguerra; ci sono state migrazioni verso molti paesi europei in particolare, ancora, nel secondo dopoguerra; i grandi movimenti interni, che negli anni Cinquanta e Sessanta hanno fatto delle grandi città italiane un incrocio di italiani di diverse origini, non hanno riguardato solo Milano o Torino ma anche, per esempio, Roma, la cui popolazione nel periodo unitario si è moltiplicata per almeno venti volte. E negli ultimi due decenni, mentre dall'Italia continua un esodo in varie direzioni, in particolare di giovani lavoratori ultra-qualificati (la cosiddetta “fuga dei cervelli”) si è manifestato un flusso in senso opposto: dall'Europa dell'est, dall'Africa settentrionale, dall'Africa sub-sahariana, dalla Cina.

 

Anche l'idea secondo cui le migrazioni sarebbero frutto principalmente della miseria e della disperazione è unilaterale e deformante. La decisione di spostarsi nasce spesso da spirito d'iniziativa e da desiderio di cambiamento: questo è vero dei mercanti e banchieri italiani che fin dall'età del Rinascimento hanno animato la vita economica di molte aree d'Europa, ma anche di tanti che hanno preso la via delle Americhe (e più di recente dell'Australia) per impiantare piccole o grandi imprese. È anche significativo il fatto che le aree più povere del Paese hanno scelto la via del trasferimento generalmente dopo le aree maggiormente benestanti. La Sicilia in particolare è rimasta a lungo una delle zone italiane con minore emigrazione verso il Nord-America per poi diventare, nel corso degli anni Novanta dell'Ottocento, la prima.

 

Non va dimenticato inoltre che anche nel periodo delle grandi migrazioni tra Otto e Novecento una parte considerevole degli emigranti italiani (circa la metà, nell'insieme) non abbandonarono per sempre il Paese, ma vi fecero poi ritorno: come ci ricorda, se la interpretiamo correttamente, la famosa foto di Alfred Stieglitz.

2. Le culture delle migrazioni

Migrazioni

I movimenti migratori hanno inciso profondamente sulla cultura: non solo di chi si spostava, ma anche di chi rimaneva nella terra di origine.

Prima di tutto, intere popolazioni che erano rimaste per secoli legate se non a un singolo villaggio quanto meno a un'area molto ristretta sono state proiettate in un altrove distante da tutti i punti di vista. Si sono trovati, dopo lunghi viaggi che tutti hanno vissuto come esperienze nuove, se non traumatiche, letteralmente dall'altra parte del pianeta, o comunque in paesi diversi per costumi e lingue. Sono passati dall'ambiente rurale alle grandi città: l'emigrazione italiana nel nord America e anche le migrazioni post-belliche e le migrazioni interne hanno avuto carattere più intensamente urbano rispetto a quelle da altri paesi. Hanno incontrato (un aspetto che troppo spesso si sottovaluta) anche “altri” italiani, provenienti da regioni diverse, connazionali per un'unificazione politica relativamente recente ma per altri aspetti quasi stranieri anch'essi: spinti a unirsi con loro dalla lingua come a volte dall'ostilità del paese di accoglienza; ma non meno spesso mossi al contrario verso forme di chiusura campanilistica.

 

Tutti questi cambiamenti si sono fatti sentire anche in patria, per la continuità dei rapporti tra paesi di arrivo e paese d'origine: una continuità mantenuta attraverso quel potentissimo mezzo di comunicazione che è il denaro, le famose “rimesse” inviate a casa dagli emigranti e che hanno costituito per molto tempo una voce importante del bilancio italiano; attraverso la scrittura (in un'epoca di ancora prevalente analfabetismo, proprio le migrazioni ottocentesche furono tra i maggiori promotori del leggere e scrivere); più tardi attraverso il telefono; e attraverso i racconti di chi tornava e la singolare lingua che portava.

 

Sono nate nei paesi d'arrivo culture spesso miste, o viceversa singolarmente conservatrici, che gli stessi compaesani faranno fatica a riconoscere e comprendere: dialetti rimasti quali erano decenni o secoli prima e insieme modificati dall'incontro con la nuova lingua, attaccamento a tradizioni che “al paese” sono da tempo scomparse, tradizioni “inventate”. A dimostrarlo le abitudini culinarie, caratterizzate spesso da nuovi apporti ma difese come segno d'identità.

 

Anche la lingua italiana si è mossa, accompagnando questi spostamenti di popolazione. Gli emigranti verso paesi lontani da un lato hanno portato i propri dialetti originari, preservandoli spesso, e hanno dato vita a parlate miste man mano che si insediavano nelle loro nuove aree di residenza: lingue nate dall'incrocio tra la parlata originaria e quella del paese di accoglienza, ma spesso influenzate pure dagli altri idiomi con cui erano venute a contatto. Così ad esempio le lingue degli italiani di molte aree degli USA portano i segni oltre che degli specifici dialetti e dell'inglese degli Stati Uniti anche di parlate nazionali egemoni a cominciare dal napoletano; e non mancano i prestiti di lingue differenti, in particolare legate alle specifiche professioni.

 

Le parlate immigranti sono rimaste per oltre un secolo escluse dall'insegnamento scolastico e anche il lavoro di analisi linguistica e lessicografica, sebbene praticato da alcuni appassionati spesso di formazione amatoriale, è rimasto sporadico. Solo negli ultimi tre-quattro decenni, sotto l'influenza dei movimenti identitari a partire dal revival etnico negli USA, si è cominciato a praticare un lavoro sistematico di rilevazione.

3. Migrazioni preunitarie. L’emigrazione stagionale dalle/nelle zone montuose, dal ‘500-‘600 al '900

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Già ai tempi delle colonie genovesi e veneziane, si erano avute migrazioni professionali italiane nelle città del Mediterraneo. Si trovano quartieri e strade italiane a Salonicco, a Chio e a Creta, in Asia minore, a Costantinopoli e a Smirne, in Siria, in Palestina e in Egitto, fino all'estremo del Marocco. A partire dal Seicento, mercanti e banchieri si diressero in Europa, gli insediamenti mercantili, a Londra e a Parigi dettero rispettivamente il nome a Lombard Street e a Rue de Lombards.

 

Gli architetti e gli artigiani italiani parteciparono alla vita culturale e alla costruzione delle grandi città europee, anche con opere di ingegneria militare, infatti fino alla seconda metà del Seicento costruirono fortezze sia in Europa che nell’America spagnola. Nella Vienna del Seicento architetti, impresari edili e artisti italiani imposero lo stile barocco, il teatro moderno, la musica. Anche in Germania, intere dinastie di decoratori e stuccatori si avvicendarono nel corso del Settecento, contribuendo alla realizzazione di saloni e cappelle a Stoccarda e a Wurzburg. Le compagnie di lavoro costituite da gruppi familiari dispiegarono attraverso i propri membri tutte le specializzazioni previste da un mestiere che andava dall'architettura, alla scultura e all'intaglio, fino alla stuccatura e alla decoratura.

 

In epoca preunitaria furono le montagne e le Alpi in particolare a fornire il principale serbatoio di lavoro migrante non solo in Italia, ma nell'intera Europa, tanto che lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985), le definì una fabbrica d'uomini per la pianura. Nelle aree montuose, infatti, molte delle comunità residenti basavano la loro economia sul ricorso all'emigrazione, spesso temporanea e stagionale, ed esclusivamente di sesso maschile.

 

Nel corso dell'Ottocento si determinò una radicale trasformazione dei percorsi e della natura delle migrazioni artigiane con la dilatazione delle rotte migratorie nel tentativo di inseguire in terre più lontane e di solito nelle Americhe quelle nicchie di mercato che la concorrenza dei manufatti industriali insidiava in Europa. L'emigrazione legata ai vari mestieri dell'edilizia, tipica di tutta l'area compresa fra la Valsesia e il Biellese nelle Alpi occidentali, di quella centrale del lago Maggiore e quello di Como, fino alla Carnia nelle Alpi orientali e sviluppatasi sin dall'età napoleonica, si estese nel corso dei successivi decenni dell'Ottocento grazie alle capacità di assorbimento di un settore che non cessò di espandersi fino alla vigilia della Prima guerra mondiale e anche dopo.

4. L’emigrazione dal Nord Italia verso le Americhe, da metà Ottocento alla Prima guerra mondiale

Migrazioni

L’emigrazione ha toccato tutte le regioni italiane (vedi tabella 1), in particolare le regioni settentrionali, tra le quali tre in particolare che, nel periodo che va dal 1876 al 1900, fornirono da sole il 47 per cento del contingente migratorio: il Veneto (17,9 per cento), il Friuli Venezia Giulia (16,1 per cento) e il Piemonte (12,5 per cento).

 

Dal Settentrione l’emigrazione privilegiò l’Europa e l’America Latina, con ulteriori suddivisioni per quello che riguarda le mete transoceaniche: dal Veneto si andò prevalentemente in Brasile, mentre i piemontesi scelsero l’Argentina. Dalle regioni dell’Italia centrale l’emigrazione si divise equamente tra stati nordeuropei e mete transoceaniche.

 

Nella seconda metà dell’Ottocento, lo sviluppo dei trasporti transoceanici rese le Americhe più vicine del Nord Europa: navi che trasportavano merci dall'America all'Europa, facevano il viaggio di ritorno con un carico di emigranti. Dal 1860 gli emigranti iniziarono a partire con le navi a vapore da Genova ma, grazie a più efficienti collegamenti ferroviari, anche da Marsiglia, Brema, Amburgo, Liverpool.

 

Con l’affermarsi della produzione monoculturale, sviluppatasi per andare incontro alla crescente richiesta di materie prime da parte del mercato internazionale, i paesi dell’America Latina si trovarono ad aver bisogno di una massa crescente di manodopera. Le principali mete dell’emigrazione italiana furono l’Argentina e il Brasile, ma non sono da trascurare le migrazioni minori in alcuni paesi latinoamericani, per l’impronta culturale che gli italiani vi hanno apportato, contribuendo in molti casi ai processi di nation building di queste società. Marinai e commercianti corsi ed elbani in Venezuela, valdesi in in Uruguay, marinai e commercianti liguri in Perù.

 

In Brasile gli italiani approdarono in massa (vedi tabella 2) dopo l’abolizione della schiavitù (1888) e si diressero prevalentemente in due aree, quella degli attuali stati di Săo Paulo e di Santa Catarina e Rio Grande do Sul nell’area più meridionale del Paese. Nell’area paulista gli italiani furono impiegati prevalentemente nelle piantagioni di caffè, dove vennero loro imposti dei rapporti di lavoro che li gettavano in una posizione semiservile. Nella prima fase migratoria (1878-1902) ha dominato, quindi, l'Italia Settentrionale (52,9%, con Veneto e Friuli in testa), da questa percentuale rimanevano tuttavia esclusi gli emigranti trentini che fino al 1918 risultavano sudditi dell’Impero Austro Ungarico.

 

La presenza di italiani sul territorio della futura Argentina risale al periodo coloniale, lombardi e piemontesi compaiono in alcune delle prime colonie, come Chivilcoy, nella provincia di Buenos Aires o San Carlos nella provincia di Santa Fe, assieme a tedeschi, svizzeri e francesi. Durante la prima metà dell’Ottocento, l’Argentina costituì un rifugio per molti esiliati che avrebbero poi partecipato ai moti risorgimentali. A partire da metà Ottocento fu la seconda destinazione delle migrazioni transoceaniche italiane. 

 

5. La grande ondata dell’emigrazione meridionale, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento. L'emergere di un’identità italiana oltre Oceano

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La grande emigrazione italiana, che ebbe come prima meta gli Stati Uniti, era stata preceduta, intorno alla metà dell’Ottocento, dall’ondata migratoria di centinaia di rifugiati politici in seguito al fallimento delle insurrezioni per l'Unità nazionale italiana tra cui lo stesso Giuseppe Garibaldi.

 

Dal 1880 milioni di italiani iniziarono ad approdare negli Stati Uniti: su 9 milioni di emigrati che si diressero verso mete transoceaniche, 4 milioni scelsero gli USA. Occorre precisare che queste cifre non tengono conto dei rientri che rappresentarono un fenomeno massiccio: circa la metà degli emigrati rimpatriò e, nel periodo 1900-1914, il loro numero si aggirò tra il 50 e il 60 per cento. Benché tutte le regioni italiane fossero rappresentate, i quattro quinti circa degli immigrati italiani provenivano dal Mezzogiorno, in particolare dalla Calabria, dalla Campania, dagli Abruzzi, dal Molise e dalla Sicilia. Nondimeno, il 20 per cento (cioè 900.000 circa) proveniva dal Centro e dal Nord Italia.

 

L’insediamento degli immigrati italiani fu influenzato dalla locazione dei porti di sbarco e dai collegamenti interni, sia ferroviari che fluviali. Ma l’elemento più incisivo fu dato dalla scarsità di danaro al momento dell’arrivo in America e la costa nord-orientale assorbì perciò la metà della popolazione italiana.  La gran massa dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti che si diresse nelle città dell'Est, attraverso la migrazione a catena, portò alla costituzione delle little italies nelle principali città statunitensi, interi quartieri abitati da italiani nelle cui strade la lingua ufficiale erano i vari dialetti del paesi di provenienza, con negozi in cui si vendevano prodotti di importazione italiani.  

 

Luigi Villari, osservando la popolazione dei suoi connazionali a New York nel 1912, notò:

 

"Alcuni quartieri sono abitati esclusivamente dagli oriundi di una data regione; in uno non troviamo che siciliani, in un altro i soli calabresi, in un terzo gli abruzzesi; vi sono poi certe strade dove non si trova che gente di un dato comune; in questa via è la colonia di Sciacca, in quello la colonia di San Giovanni in Fiore, in quell'altra la colonia di Cosenza".                                                                                                                                   

Fino agli anni trenta il campanilismo caratterizzò gli insediamenti degli italiani all’estero.

Altre mete, sempre perché facilmente raggiungibili, furono Chicago, New Orleans, St. Louis. Sulla costa occidentale, la California vide importanti insediamenti agricoli, promossi soprattutto da immigrati piemontesi dediti alla vitivinicoltura, grazie anche agli incentivi dello stato per promuovere l’agricoltura. 

6. Le migrazioni nel periodo fascista: verso le colonie africane, verso le zone di ripopolamento

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La fine della Prima guerra mondiale sancì la fine del liberismo migratorio facendo da catalizzatore delle paure nei confronti degli stranieri: Stati Uniti, Canada, Brasile e Argentina emanarono norme che preannunciavano l'indirizzo nazionalista a cui si sarebbero ispirate le politiche migratorie degli anni successivi. Attraverso restrizioni all’emigrazione nei principali Paesi che avevano accolto i grandi flussi migratori italiani, si concluse l’epoca della grande emigrazione.

 

La lobby colonialista sfruttò la questione dell’emigrazione per rivendicare all’Italia le colonie politiche verso le quali indirizzare l’esuberanza demografica della penisola. I flussi ripresero quindi già a partire dagli anni venti nell’ambito del colonialismo italiano, che li diresse verso le remote colonie del Corno d’Africa e poi della Libia, dove non vi erano comunità italiane rilevanti, trascurando le aree in cui storicamente risiedevano le più numerose comunità italiane in Africa, in particolare in Egitto e in Tunisia.

 

Inoltre, l’emigrazione italiana verso altri possedimenti europei in terra d’Africa, venne sostanzialmente passata sotto silenzio per non indebolire la retorica della propaganda verso i possedimenti italiani, la cui immagine restituita in Italia tendeva a enfatizzarne ricchezze e prospettive di lavoro o guadagno, lungi dall’offrire un resoconto fedele e genuino dell’oltremare. Alla costruzione di una politica della colonizzazione per la legittimazione almeno parziale del colonialismo, si affiancò una mitizzazione della realtà africana nel suo resoconto in patria.

 

A ridare le giuste proporzioni del fenomeno della colonizzazione legata al colonialismo sono studi recenti che hanno confermato come solo l’1 per cento mediamente (Calchi Novati), o al più l’1,7 per cento nel periodo di picco massimo (Labanca), del numero complessivo degli emigrati, che tra XIX e XX secolo lasciarono l’Italia, si diresse effettivamente verso l’oltremare: in altre parole i coloni d’Africa furono una cifra piccola, 250-350 mila persone, se paragonata ai milioni che partirono per le Americhe o l’Europa.

 

Nel periodo fra le due guerre, a causa delle restrizioni poste all'emigrazione all'estero, anche le migrazioni interne avevano subito un costante incremento, pur ostacolate dalle legge del 1931 sulle migrazioni e sulla colonizzazione interna e da quella del 1939, denominata «Provvedimenti contro l'urbanesimo». Una forte migrazione interna venne alimentata dalle bonifiche e dai trapianti di popolazione contadina nelle paludi Pontine, nelle località sarde di Fertilia e di Arborea, coinvolgendo quasi centomila persone, in partenza per lo più da alcune province del Veneto e dal Ferrarese, in attuazione della politica rurale e demografica del regime. 

7. L’emigrazione verso l’Europa, l’Australia e l’America latina dopo la Seconda Guerra Mondiale

Migrazioni

Alla fine della Seconda guerra mondiale, le difficoltà economiche condivise da tutti i paesi europei, e la perdurante chiusura delle frontiere statunitensi, diressero le migrazioni verso altre destinazioni (vedi Grafico 1): in America Meridionale i paesi privilegiati furono l'Argentina e successivamente il Venezuela, in America Settentrionale il Canada, e l'Australia, che era stata fino ad allora una destinazione del tutto secondaria.

 

L'Argentina fu il primo paese in cui si diresse l'esodo transoceanico, grazie ad uno dei primi accordi bilaterali, frutto della confluenza di interessi fra un paese bisognoso di manodopera per sostenere una fase di intenso sviluppo industriale e le necessità di ricorrere all'emigrazione dell'Italia. Fra il 1946 e il 1950 giunsero quasi 300 mila italiani, seguiti da oltre 100 mila negli anni successivi. Ma sin dal 1949 la recessione divenne palese: gli arrivi diminuirono progressivamente a partire dal 1957, accompagnati da un numero elevato di rientri, per esaurirsi del tutto alla fine del decennio.

 

Sempre più promettente apparve invece il Venezuela, grazie all'esplosione della sua economia petrolifera e mineraria, soprattutto dopo gli accordi del 1951 fra il suo governo e il CIME, Comitato intergovernativo per l'emigrazione europea, che divenne operativo l'anno successivo e che fino al 1956 permise l'arrivo di 167.000 italiani, seguiti da altri 5.000 nel 1957. Il Venezuela divenne una meta preferita alla stessa Argentina, tanto che entro il 1960 il numero totale di arrivi toccò le 236.000 unità.

 

Nonostante risultassero culturalmente più distanti, altri paesi transoceanici attrassero in modo più duraturo l'esodo dall'Italia postbellica grazie alla loro crescita economica sostenuta e a politiche di incoraggiamento dell'immigrazione. Il Canada elaborò fin dal 1947 un programma di immigrazione, privilegiando quella europea, soprattutto dall'area centro-settentrionale, e continuando a limitare quella asiatica. Già nel marzo di quell'anno, funzionari canadesi raggiunsero l'Europa per selezionare i futuri immigrati sotto la supervisione dell'Organizzazione internazionale per i rifugiati. Gli italiani furono il gruppo che approfittò maggiormente di questa possibilità.

 

L'Australia fu una delle nuove americhe dell'emigrazione italiana di questi anni grazie agli accordi bilaterali del 1951, che favorirono l'ingresso di 20.000 immigrati l'anno in cinque anni. Tra il 1947 e il 1961 oltre 200.000 italiani giunsero in Australia e vi restarono, formando oltre il 20% dell'immigrazione totale del periodo.

 

In Europa nel primo decennio del dopoguerra, il 48% degli emigranti si diresse in Svizzera e quasi il 30% in Francia. Solo nel decennio successivo riprese l'emigrazione verso la Germania, che assorbì il 26% dell'esodo, ma che assunse  fra il 1966 e il 1975 il secondo posto, con il 36%, dopo la Svizzera, che continuò ad attrarre oltre il 47% dell'emigrazione italiana in Europa. Per gli emigranti in Europa del nord partiti dopo il 1960, le percentuali di ritorno si sono mantenute sempre superiori all'80% e dopo il il 1970 hanno superato il 90 e il 100%. Nonostante ciò l'esodo di questi anni ha sedimentato nel tempo cospicue comunità, soprattutto in Belgio, in Svizzera e in Germania

8. La preservazione dell'identità nazionale nelle «Altre Italie»

Migrazioni

I processi di nazionalizzazione degli italiani all’estero sono stati storicamente soggetti a numerose variabili: contesti di insediamento, epoche storiche, scelte politiche dell’Italia e dei paesi di accoglienza, cambiamenti generazionali hanno profondamente influito sulla formazione dell’italianità. In ogni caso, tutti gli studi concordano nel rilevare che, fino al fascismo, la coscienza nazionale, assente nei migranti all’atto di partire, si sviluppò nei paesi di insediamento attraverso il confronto con l’altro e con le stesse élite italiane delle nuove comunità. In seguito, le politiche del fascismo volte a una propaganda mirata, indirizzata alle collettività italiane all’estero, portarono allo sviluppo di sentimenti di italianità tra immigrati divisi in mille lealtà campanilistiche.

 

Peraltro l’avvento delle seconde generazioni e le politiche assimilazionistiche di molti paesi di immigrazione fecero sì che l’italianità si sviluppasse parallelamente all’integrazione nelle società ospiti. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, infine, si passò da un sostanziale distacco dalla madrepatria alla «scoperta delle radici», che conciliò il successo dell’inserimento con un rinnovato interesse per l’Italia.

 

Si tornò in tal modo a guardare ai propri paesi di origine, ma all’interno di una visione del tutto nuova. Ciò dette adito a quello che è stato definito il revival dell’ethnicity, che iniziato negli Stati Uniti, ha influenzato i principali paesi di emigrazione portando, oltre che all’adozione di politiche educative e comunitarie di matrice multiculturale in Canada e in Australia, a uno sviluppo dello studio della lingua italiana da parte dei discendenti, al viaggio in Italia per scoprire le proprie radici, ma anche per visitare le città d’arte. A partire dagli Stati Uniti si cominciarono a studiare nei paesi di grande presenza italiana le storie delle varie emigrazioni e a rivalutarne le culture.

 

Fu solo alla fine degli anni sessanta, con il revival dell’etnicità negli Stati Uniti che le minoranze etniche bianche di origine europea, molte delle quali oramai giunte alla terza generazione, impararono a sentirsi americane senza dovere rinnegare le proprie origini, anzi, poterono rafforzare il loro essere americane attraverso l’identificazione etnica, rifiutando il melting pot e riscoprendo con orgoglio le proprie radici. La storia, la lingua, l’arte, ma anche la cucina italiana divennero oggetto di rivalutazione.

 

 

La lingua degli emigrati

Gli emigrati, svilupparono una lingua franca italiana che permetteva loro di dialogare con i connazionali di diverse regioni: una koinè ben lontana dalla lingua di Dante, intrisa di termini dialettali e di una storpiatura delle lingue autoctone dei paesi di insediamento: koinè che venne chiamata a seconda dei casi «la lingua del iesse» negli Stati Uniti, il «lunfardo» e il «cocoliche» in Argentina, il «talian» in Brasile e così via. Talvolta, il dialetto divenne addirittura la lingua dominante, come accadde nelle comunità più chiuse: è il caso del veneto nel Rio Grande do Sul in Brasile o del piemontese nella Pampa Gringa in Argentina. In entrambi i casi il comportamento linguistico degli emigrati costituiva rispettivamente un sintomo dell’integrazione nel nuovo paese o della persistenza di un legame con la comunità locale originaria, piuttosto che con l’Italia. 

9. Le migrazioni interne e l'urbanizzazione

Migrazioni

Nel corso degli anni cinquanta del Novecento la ripresa vigorosa dell'esodo all'estero non frenò gli spostamenti interni: dalle campagne e dalla montagna verso le città, dalle regioni del Nord-Est verso le aree più industrializzate del Nord-Ovest. Protagonisti di questi spostamenti furono sia uomini sia donne - ricordiamo, ad esempio, la consistente migrazione femminile veneta. La principale ondata si ebbe dal Meridione verso il Settentrione. Si trattò di migrazioni prevalentemente definitive. La distribuzione demografica del Paese subì la più importante modificazione di tutta la sua storia: dal 1955 al 1970 quasi 25 milioni di persone si spostarono sul territorio. Circa 20 milioni di questi spostamenti furono di breve raggio, cioè tra comuni e province della stessa regione, mentre il resto riguarda i movimenti tra regione e regione.

 

Nei cinque anni del «miracolo economico», dal 1958 al 1963, oltre 9.000.000 persone lasciarono il Mezzogiorno. Nel solo 1958 i comuni del cosiddetto triangolo industriale acquisirono 69.000 nuovi residenti, giunti dal Meridione. Ma quando, nel 1961, venne finalmente abrogata la legge contro l'emigrazione, i nuovi residenti divennero oltre 200.000. I due fenomeni concomitanti, l'abbandono delle campagne e delle montagne e l'esodo dal Sud contribuirono all'esplosione demografica delle città: Milano passò da 1.274.245 abitanti del 1951 a 1.681.045 del 1967; negli stessi anni Torino passò da 719.300 abitanti a 1.124.714, mentre i comuni della cosiddetta «cintura» incrementavano dell'80 per cento la loro popolazione. La regione che primeggia per numero di arrivi nel corso degli anni cinquanta è la Puglia, che da sola fornisce il 20 per cento degli immigrati a Torino (esclusi quelli piemontesi): segue la Sicilia (con l’11 per cento degli immigrati) e poi Calabria e Campania (7 per cento). Il decennio successivo rafforza questa tendenza distributiva: i pugliesi giunti a Torino negli anni sessanta furono quasi 90 mila, seguiti da oltre 70 mila siciliani, 35 mila calabresi e 30 mila campani.

 

Anche Roma funzionò da magnete di questo esodo epocale: la sua popolazione passò da 1.650.754 abitanti del 1951 a 2.614.156 del 1967. I nuovi arrivati provenivano, oltre che dal resto del Lazio, dalla Puglia, dall'Abruzzo e dalla Campania e dalla Sardegna.

 

A partire dagli anni novanta il fenomeno sembra riprendere intensità. Gianfranco Viesti ha individuato il 1999 come l’anno della svolta, quando 160.000 persone si sono trasferite dal Mezzogiorno al Centro-Nord, mentre sono state circa 84.000 quelle che hanno compiuto il percorso inverso, con un saldo negativo dunque di oltre 75.000 unità. Il trend si è poi mantenuto costante negli anni successivi. Le regioni più colpite sembrano essere la Calabria, la Campania e la Basilicata.

 

Una delle caratteristiche di questa nuova emigrazione è la forte componente giovanile. Stando alle statistiche della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, la Torino fordista e post-fordista sembra attrarre meno rispetto al Nord-Est, all’Emilia o alla Lombardia. 

10. L'Italia paese d'immigrazione

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Dal 1973 il saldo migratorio è positivo: comincia l’era dell’immigrazione in Italia. Durante gli anni settanta e fino all’inizio degli anni ottanta furono quattro i più importanti flussi migratori: dalla Tunisia verso la Sicilia, dove i tunisini trovarono lavoro nei settori della pesca e dell’agricoltura; quello femminile delle prime donne immigrate filippine, eritree, capoverdiane, somale e latino-americane che andarono a fare le domestiche e dall’Est Europa, i manovali edili iugoslavi. In ultimo vi fu un flusso di rifugiati politici e di studenti provenienti da altri paesi europei, come la Grecia, o da paesi asiatici e africani.

 

Nel 1996 i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini stranieri per la prima volta superarono il milione (1.095.622) suddivisi tra comunitari, 13,9 per cento, ed extracomunitari, 86,1 per cento.

 

Per l’Italia si è parlato di arcipelago migratorio poiché l’arco delle nazionalità presente nel paese è straordinariamente ampio, le lingue straniere parlate sono più di cento.

 

Gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2011 sono 4.570.317, 335mila in più rispetto all’anno precedente (+7,9%). Nel 2010 è cresciuto il numero dei cittadini dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale (sia Ue sia non Ue): in testa abbiamo la Romania con quasi un milione di residenti (9,1% in più rispetto all’anno precedente, 21,2% sul totale degli stranieri), seguita da Moldavia (+24,0%), Federazione Russa (+18,3%), Ucraina (+15,3%) e Bulgaria (+11,1%). Anche i cittadini dei Paesi del Sud Est asiatico hanno fatto registrare incrementi importanti: Pakistan (+16,7%), India (+14,3%), Bangladesh (+11,5%), Filippine (+8,6%), Sri-Lanka (+7,6%). L’elevata crescita che ha interessato queste comunità è legata, tra l’altro, agli effetti dell’ultima regolarizzazione di colf e badanti, svoltasi nell’ultima parte dell’anno 2009, i cui effetti in termini di iscrizioni anagrafiche si sono fatti sentire maggiormente nel corso del 2010 (Grafico 2).

 

La quota di cittadini stranieri sul totale dei residenti (italiani e stranieri) continua ad aumentare: al 1° gennaio 2011 è salita al 7,5%. Nel 2010 sono nati circa 78mila bambini stranieri, il 13,9% del totale dei nati da residenti in Italia. Nel corso del 2010, 65.938 cittadini stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana con un aumento dell’11,1% rispetto all’anno precedente. Tra i nuovi cittadini italiani sono più numerose le donne, poiché i matrimoni misti riguardano prevalentemente donne straniere e uomini italiani.

 

Gli stranieri residenti in Italia si distribuiscono sul territorio in maniera molto disomogenea, a seconda della cittadinanza di appartenenza. L’86,5% degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 13,5% nel Mezzogiorno (Grafico 3). La maggior parte si concentra nel Nord (35% nel Nord-Ovest, 26,3% nel Nord-Est) e, in misura inferiore, nel Centro (25,2%), invece nel Mezzogiorno risiede soltanto il 13,5% dei residenti stranieri.

Bibliografia

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