4. XVI e XVII secolo: moda e rappresentazione

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Li habiti della figura siano accomodati all’età e al decoro, cioè che ‘l vecchio sia togato, il giovane ornato d’abito che manco occupi il collo da li omeri delle spalle in su, eccetto quelli che fanno professione di religione” (Leonardo da Vinci, Codice urbinate).

 

Nel consiglio di Leonardo ai ritrattisti coevi si cela tutto il dibattito sul decoro scaturito dalla quella “voglia di moda” che esigeva fogge sempre più sofisticate negli abiti come nei cappelli maschili e nelle acconciature femminili. I pittori d’altronde avevano grosse responsabilità nella diffusione del gusto: le nuove classi facevano a gara a commissionare cicli di affreschi per la gloria della Famiglia ritratta negli abiti più pregiati, come nelle cappelle dei Sassetti e dei Tornabuoni dipinte da Domenico Ghirlandaio, testimone della vita e dei costumi di Firenze come lo furono i teleri di Vittore Carpaccio di Venezia. Ma fu la diffusione del ritratto, attraverso artisti geniali come Botticelli e Raffaello,Veronese e Tiziano, o Lorenzo Lotto, Parmigianino e Bronzino, veri cultori del nuovo genere pittorico, a documentare le mode dell’epoca. Così Giovan Battista Moroni, nei suoi “ritratti in azione”, come Il sarto, così emblematico per capire il cambiamento in corso nell’abbigliamento del XVI secolo. Il giovane uomo è vestito alla foggia del tempo: il farsetto serrato al collo annuncia la severa influenza spagnola (come le braghe rigonfie, alla “sivigliana”), un indumento quasi intimo, animato solo da brevi accoltellature (tanto in voga dalla discesa dei lanzichenecchi). Anche i colori “parlano” di sobrietà e modestia: il colore chiaro ma non brillante che illumina il volto indica la lindura della persona, il rosso spento delle braghe svela una tintura non pregiata evidenziata dall’opacità del tessuto di panno. Tutto ciò rivela una condizione sociale modesta ma dignitosa, che riabilita il lavoro manuale e una professione che inizia a ottenere rispetto e autonomia.

 

Diffusione, sarà allora parola chiave per la costruzione dell’idea di Moda in senso moderno. Dal XVI secolo all’arte dei pittori si affiancò il più potente mezzo di comunicazione fino alle soglie del XXI secolo: la stampa a caratteri mobili, che dal 1455 aveva avviato il percorso verso l'alfabetizzazione di massa, poteva immettere sul mercato una quantità di informazioni a prezzi più accessibili.

Nel breviario del perfetto Cortegiano, vero best-seller dal 1528, Baldassarre Castiglione, esalta un’italianità capace di tradurre “in meglior forma” le esagerazioni dei costumi stranieri, “come talor sol essere il franzese in troppa grandezza e ’l tedesco in troppa piccolezza”. Un ventennio dopo, Monsignor Della Casa, istruendo con il suo Galateo una platea sociale più ampia, deprecherà “coloro che vanno vestiti non secondo l’usanza de’ più, ma secondo l’appetito loro”, stigmatizzando anticonformismi ed eccessi a ogni livello. Questi e molti altri trattati a venire testimoniano l’interesse intellettuale e “politico” per il tema della moda, forma di potere da un lato e modo di affermare l’individualità dall’altro, segnalando ciò che nel Seicento divenne una vera mania: il valore concesso alle novità, il gusto dell’originalità a caccia di fogge diverse creeranno le vere leggi della moda, a dispetto delle leggi suntuarie. E se in Italia si attese il 1648 per adottare il termine Moda, già nel 1590 Cesare Vecellio, nel compendio di Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, offriva un eccezionale repertorio di fogge, la prima storia del costume mai pubblicata che preannunciava la prossima nascita del giornale di moda.

4.1. L’abbigliamento del XVI secolo

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Dopo la grazia quattrocentesca, la maestosa classicità del cinquecento […], si può paragonare alla turgida succosità del frutto che succede che succede alla delicatezza del fragile fiore. (Levi Pisetzky)

 

Il Cinquecento è il secolo della teorizzazione e dei precetti, dei trattati che disputano su ogni argomento. L’ideale di perfezione formale emanata da cultori come il Bembo, irradia la cultura delle Corti Rinascimentali in tutta l’Europa occidentale, così in Francia il prestigio italiano è garantito dall’ascesa di Caterina de’ Medici. Ma è anche il secolo del dominio straniero, con il primato della cattolicissima Spagna, madre anche del battagliero ordine dei gesuiti. Le basi umanistiche della morale cattolica si impregnano sempre più di fervore religioso e in quest’ottica il Concilio di Trento (1545-63) segnerà lo spartiacque.

 

Il carattere dell’abbigliamento riflette tale passaggio: così nel primo periodo si impone una “maestà corposa” nella linea e nella materia, lasciando spazio alla varietà di fogge scelte a seconda delle occasioni. Nelle donne, La camora o gonnella, copre ora tutta la persona, la vita è relativamente alta, le maniche attaccate basse e piatte, aperte alle spalle e lungo il braccio da cui sbuffa la camicia. Caratteristica del periodo è lo scollo, spesso ampio e quadro o arrotondato. I colori si fanno vivi, ma maestosi: verdi o azzurri, o rosato unito, come si vede in molti ritratti del Bronzino; le decorazioni sono spesso in oro, in argento o a rilievo negli stupendi velluti sopra rizzi e il disegno spesso si ispira all’aguzza linea del carciofo. Poi si afferma, soprattutto per gli uomini, la moda del nero monocromo, rischiarato appena dai tocchi bianchi delle gorgiere e dei manichini di merletto.

 

Nel secondo periodo del secolo la dominazione spagnola e il rigore controriformista irrigidiscono le forme femminili in un’astrazione artificiosa, che schematizza la figura in due coni intersecanti: la parte bassa è celata dal rigido verdugale (in Italia detto faldiglia o faldia), mentre il busto, rigido e “steccato” si appuntisce sul ventre; la testa, intirizzita dall’alto colletto, si infossa nella gorgiera, che sarà sempre più protagonista al volgere del secolo, pur ingentilita dalla finezza della lavorazione, come i veri capolavori creati, ad ago o a tombolo, dalla maestria artigianale delle merlettaie veneziane.

 

L’abito maschile è all’inizio più greve, anche se già alla fine degli anni '20 la linea si assottiglia, abbandona i grandi volumi di saii e roboni, dei larghi cappelli e delle vesti stratagliate, accoltellate (che Leonardo tanto deprecava), indotte dalla moda germanica. L’influsso del costume militare è allora molto importante nell’evoluzione dell’abito maschile e anche quella moda mutuata dalle strane vesti dei Lanzichenecchi si può chiarire con lo strategico taglio del tessuto in punti del corpo sottoposti allo sforzo, come gambe e dorso. Sartorialmente vennero create forme separate per le gambe, calze e cosciali, che diverranno veri e propri calzoni; anche il dorso si “sveltisce” con corti giubboni imbottiti e coletti senza maniche, coperti da brevi mantelli semicircolari, le cappe, spesso decorate come l’abito.

Questa base vestimentaria rimarrà per il resto del '500, ma ne varierà la foggia. Così in pochi anni, aderendo al modello spagnolo ormai dominante, l'aurea mediocritas dello stile italiano cambierà di segno. Pur restando l'assolutezza del nero, la grande enfiatura dei calzoni "alla castigliana", la gorgiera e i manichelli sempre più esuberanti, la vistosa berretta a tozzo, la cappa troppo corta, porteranno la linea verso una forzatura, un eccesso, con perdita di Grazia e di Decoro.

 

Bibliografia

  • Quondam Amedeo - Tutti i colori del nero - Moda e cultura nell'Italia del Cinquecento - Vicenza 2007

4.2. I lanzichenecchi

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Le truppe dei lanzichenecchi discese a più riprese in suolo italiano fra il XV e XVI secolo sono tristemente note per il cosiddetto sacco di Roma, compiuto nel 1527 al soldo dell'Imperatore Carlo V. La truce vicenda si inquadra nella più ampia cornice dei conflitti per la supremazia in Europa tra Francesco I di Valois, Re di Francia e Carlo V d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, nonché re di Spagna, ma risulta anche una crociata luterana contro la Roma papalina.

 

Il costume rispecchiava del tutto la tracotante spavalderia di questi mercenari, eccessiva nei colori e sovrabbondante di accoltellature, profonde incisioni sui tessuti che lasciavano intravvedere la biancheria sottostante, venute in gran moda nel XVI secolo. Si dice che questa moda dei tagli verticali fosse mutuata dagli svizzeri, dopo il 1476, poi, dalla Germania tramite la famiglia di Guisa, fu introdotta in Francia, per passare in Inghilterra dopo le nozze di Luigi XII con la sorella di Enrico VIII. In nessun paese comunque, gli abiti dai tagli verticali raggiunsero il culmine di esagerazione come in terra tedesca, dove centinaia di tagli “martirizzavano” farsetti e calzoni.

I lanzichenecchi lanciarono anche la moda dei calzoni “a lattuga”, a larghe strisce di stoffa, separate fra loro dai fianchi alle ginocchia, da cui appariva una gran quantità di seta bianca. Questi calzoni sono ancora oggi indossati dalle guardie svizzere della Città del Vaticano, il cui figurino si dice fosse stato addirittura disegnato da Michelangelo.

 

4.3. Etica ed estetica: Il cinquecento e i trattatisti “del comportamento”

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Se è vero che l’osservazione di come si evolve il fenomeno della moda ci aiuta a capire il contesto socio-politico e culturale di un paese, per quanto riguarda l’Italia è importante valutare non solo il corpo delle leggi suntuarie, ma anche il proliferare nel corso del Cinquecento e oltre, di una letteratura che potremmo definire “del comportamento”. Sviluppati spesso in forma dialogica, questi “trattati” si pongono come riferimento di buona condotta nella società di appartenenza: un “codice”, con regole rigide, di cui l’abbigliamento è parte integrante. Essi danno la misura di come l’idea di “moda” sia penetrata nella vita di relazione e di quanto l’evoluzione del fenomeno sia inevitabile e indomabile. Implicito è il riconoscimento della moda come fenomeno estetico, legato all’inesauribile dibattito sulla ricerca della bellezza. Alle dichiarazioni di Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortegiano (1528) sull’impossibilità di definire la maniera in cui si deve vestire un cortigiano «poiché in questo veggiamo infinite varietà», quindi a «dar regola determinata circa il vestire», rispondeva l’autore del Dialogo della bella creanza delle donne (1539), Alessandro Piccolomini, compiacendosi che esse amassero «usar sempre qualche bella foggia nuova» e giustificando la stravaganza nel vestire che ha «molto del buono». Entrambi dispensano saggi consigli di eterna validità affinché la donna possa esaltare le proprie doti fisiche e domare i difetti; ma non basta: alle caratteristiche esteriori rispondono quelle psicologiche e comportamentali, perciò una donna “conoscendo in sé una bellezza vaga e allegra, deve aiutarla coi movimenti con le parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro,[…] per accrescer quello che è dono della natura”, rispettando ovviamente l’ideale rinascimentale di gentile equilibrio che più sta a cuore al Castiglione. Ci ricorda peraltro Piccolomini: “Che se una giovane havesse una veste fatta con bella foggia, e con colori ben divisati, e ricca, e comoda, e non sapesse dapoi tenerla indosso non havrebbe fatto niente”; e al portamento deve corrispondere la cortesia “che ride e sta bene tra l’altre virtù, […] come stanno i rubini e perle fra l’oro”.

 

Discutendo di “che abito piu se gli convenga e circa l’ornamento del corpo in che modo debba governarsi”, Baldasar Castiglione fece del Cortegiano, pubblicato nel 1528, a dieci anni dalla prima stesura, uno dei libri più venduti in Europa nel sedicesimo secolo e Francesco I lo fece tradurre in francese per istruire la sua “corte ideale”. Il modello vestimentario che esce dall’opera sembra peraltro ben illustrato nei figurini del famoso e pressoché coevo, Libro del Sarto, del milanese Gian Giacomo del Conte, primo manuale del ben vestire dedicato ai sarti.

Ciò che determina l’importanza del libro del Castiglione è l’aver saputo incidere e restituire ad un tempo lo spessore culturale di una delle corti, quella di Urbino, che più hanno incarnato la straordinaria stagione del Rinascimento italiano. Quei decenni che separano quest’opera dal Galateo overo de' costumi (1558), manuale di belle maniere dell’arcivescovo Giovanni Della Casa, segnano il passaggio culturale dall’Umanesimo alla vocazione didattica della Controriforma, la cui base di ascolto si allarga dalla cerchia cortigiana: silenziosi testimoni stanno i più celebri ritratti dei due letterati: il “cortese” e soppannato Baldassarre dell’aulico Raffaello, e l’austero, incisivo Monsignore dell’inquieto Pontormo.

4.4. La comparsa della parola “moda”

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Moda [mò-da] s.f.

  1. Comportamento variabile nel tempo che riguarda i modi del vivere, le usanze, l'abbigliamento; modello di comportamento imposto da individui o gruppi di prestigio o da creatori di stile SIN voga, costume: lanciare una m.; pettinatura di m. || alla m., secondo la m., frequentato da molti: locale alla m.; anche, all'ultima m., secondo gli ultimi dettami di chi o di ciò che influenza il gusto comune | di m., che segue il gusto prevalente: essere di m.; tornare di m.
  2. estens. L'insieme di tutto ciò che riguarda l'abbigliamento, dall'industria ai capi prodotti: la m. italiana è famosa in tutto il mondo || disegnatore di m., stilista

(Da: Sabatini Coletti, Dizionario della Lingua Italiana)

 

“È possibile individuare una seconda fase rilevante per la storia della moda, se non una possibile data di nascita ufficiale, tra il XVI e il XVII secolo, quando fa la sua comparsa la parola «moda», mutuata probabilmente dal francese «mode», diffusosi nella penisola italica, assieme alle mode francesi. In Italia il primo ad impiegare il lemma «moda» è comunemente ritenuto l’abate milanese Agostino Lampugnani, autore nel 1648 di un testo intitolato Carrozza da Nolo overo Del vestire e usanze alla Moda. Più o meno negli stessi anni il Vecellio definiva «la cosa degli habiti» il fenomeno della moda caratterizzato, come lui era ben consapevole, da continui mutamenti. Altra derivazione possibile è dal latino «modus», con il richiamo a misura, moderazione, regola, tempo, ritmo, in un’epoca in cui il fenomeno dell’esibizione di vesti ed ornamenti aveva cominciato a farsi vistoso. Sta di fatto che nel Seicento la parola «moda» appare nei titoli e nei testi di molti autori a indicare una sorta di frenesia nell’adeguarsi agli ultimi, anzi ultimissimi usi. Non era un’esperienza inedita, ma si presentò a quel tempo in forma molto più accentuata rispetto al passato. Inedita era invece la consapevolezza che il fenomeno fosse sfuggito al controllo di quanti volevano ricondurre le apparenze a una forma di segnaletica sociale distintiva, politicamente governata. Prima della comparsa del termine «moda» si parlava di nuove fogge, di usi, di costumi e si definivano «foggiani» i cultori delle novità in fatto di abbigliamento. Dalla Francia del XV secolo il nuovo termine passò, oltre che in Italia, in Olanda e in Germania.”

 

(da: Maria Giuseppina Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna, il Mulino)

4.5. Cesare Vecellio: Habiti antichi et moderni di tutto il mondo

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Cesare Vecellio (1521-1601), cugino del pittore Tiziano, è autore di quello che può essere considerato il primo trattato di storia della moda. Pubblicata a Venezia nel 1590, la raccolta Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, illustrava le fogge di vestiario di ogni parte del mondo allora noto, dei più diversi ceti sociali, da papi e principi a contadine e soldati, gentildonne e prostitute, nelle varie epoche storiche fino alla fine del Cinquecento. Dopo il successo della prima edizione il testo fu ampliato con una sezione sugli "habiti" delle Americhe e ripubblicato nel 1598 in una versione bilingue (latino e italiano).

Sebbene Cesare Vecellio avesse ideato il proprio libro principalmente come supporto per pittori, disegnatori e incisori, la sua immediata popolarità attesta del fascino che la moda e il costume hanno avuto da sempre, e si inserirsce inoltre in quel filone di curiosità esotiche e diari di viaggio, anticipatore del lavoro etnografico-antropologico, e che con l’invenzione della stampa, dal Milione in poi, avevano avuto una popolarità indiscussa.

 

Consapevole che nessuna epoca era stata tanto favorevole come la sua allo sviluppo del lusso e della moda e alle loro infinite varietà in Italia, in Francia, in Germania e nel resto del mondo, Vecellio contribuisce a determinare un linguaggio del vestire e della moda avviato all’inizio del Cinquecento con Il Libro del Cortegiano. L’Italia, specialmente Venezia, assumono un ruolo centrale nella geografia del vestire occidentale. Nel settimo capitolo, accennando ai “popoli diversi che habitano l’Italia”, ne sottolinea la situazione di luogo “preda di forestieri e piazza della fortuna; e per questo non farà meraviglia, se qui si vedrà maggior diversità ne gli habiti, che in qual si voglia altra natione, e regione.” Dal gusto italico di voler essere diversi, più capricciosi e instabili nel modo di vestire, Vecellio estrapola anche una sorta di “carattere nazionale” improntato all’individualismo e alla libertà dello stile: una particolarità determinante per la ricchezza per la creativa “made in Italy”. Insistendo sulla  varietà connaturata allo “stile italiano”, si mirava a creare una mappa della diversità culturale, senso di estetica e bellezza che caratterizzavano varie città della penisola. Ci sono capitoli infatti su Roma, Bologna, Napoli e altri importanti centri italiani. Le numerose differenze dei costumi e del senso estetico erano dettate a loro volta da differenze geografiche, dall’economia locale e dalle alleanze politiche che erano state realizzate attraverso il matrimonio […] come nel caso di Eleonora di Toledo e Cosimo de’ Medici (Eugenia Paulicelli).

 

Un altro aspetto dell’influenza di manuali come questo è stata l’accessibilità ai sarti che, assieme ai loro clienti, poterono ricavarne spunti per nuove fogge. Pare, ad esempio, che dalla presa di conoscenza dell’abbigliamento tipico ungherese, caratterizzato da una lunga fila di alamari, nacque e si diffuse anche in Italia dagli anni Venti del Seicento la moda dell’ungarina: una tunica abbastanza sciolta decorata con alamari secondo l’uso, secondo quanto testimoniato dal Vecellio, diffuso in Ungheria Questo spunto fu adottato soprattutto per gli abiti dei bambini di elevata categoria sociale, secondo l’idea, giudicata prettamente orientale, che un abito poco strutturato fosse più funzionale al movimento: una concezione in decisa antitesi con i gusti e le tendenze affermatisi in Occidente in età moderna.