Se è vero che l’osservazione di come si evolve il fenomeno della moda ci aiuta a capire il contesto socio-politico e culturale di un paese, per quanto riguarda l’Italia è importante valutare non solo il corpo delle leggi suntuarie, ma anche il proliferare nel corso del Cinquecento e oltre, di una letteratura che potremmo definire “del comportamento”. Sviluppati spesso in forma dialogica, questi “trattati” si pongono come riferimento di buona condotta nella società di appartenenza: un “codice”, con regole rigide, di cui l’abbigliamento è parte integrante. Essi danno la misura di come l’idea di “moda” sia penetrata nella vita di relazione e di quanto l’evoluzione del fenomeno sia inevitabile e indomabile. Implicito è il riconoscimento della moda come fenomeno estetico, legato all’inesauribile dibattito sulla ricerca della bellezza. Alle dichiarazioni di Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortegiano (1528) sull’impossibilità di definire la maniera in cui si deve vestire un cortigiano «poiché in questo veggiamo infinite varietà», quindi a «dar regola determinata circa il vestire», rispondeva l’autore del Dialogo della bella creanza delle donne (1539), Alessandro Piccolomini, compiacendosi che esse amassero «usar sempre qualche bella foggia nuova» e giustificando la stravaganza nel vestire che ha «molto del buono». Entrambi dispensano saggi consigli di eterna validità affinché la donna possa esaltare le proprie doti fisiche e domare i difetti; ma non basta: alle caratteristiche esteriori rispondono quelle psicologiche e comportamentali, perciò una donna “conoscendo in sé una bellezza vaga e allegra, deve aiutarla coi movimenti con le parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro,[…] per accrescer quello che è dono della natura”, rispettando ovviamente l’ideale rinascimentale di gentile equilibrio che più sta a cuore al Castiglione. Ci ricorda peraltro Piccolomini: “Che se una giovane havesse una veste fatta con bella foggia, e con colori ben divisati, e ricca, e comoda, e non sapesse dapoi tenerla indosso non havrebbe fatto niente”; e al portamento deve corrispondere la cortesia “che ride e sta bene tra l’altre virtù, […] come stanno i rubini e perle fra l’oro”.
Discutendo di “che abito piu se gli convenga e circa l’ornamento del corpo in che modo debba governarsi”, Baldasar Castiglione fece del Cortegiano, pubblicato nel 1528, a dieci anni dalla prima stesura, uno dei libri più venduti in Europa nel sedicesimo secolo e Francesco I lo fece tradurre in francese per istruire la sua “corte ideale”. Il modello vestimentario che esce dall’opera sembra peraltro ben illustrato nei figurini del famoso e pressoché coevo, Libro del Sarto, del milanese Gian Giacomo del Conte, primo manuale del ben vestire dedicato ai sarti.
Ciò che determina l’importanza del libro del Castiglione è l’aver saputo incidere e restituire ad un tempo lo spessore culturale di una delle corti, quella di Urbino, che più hanno incarnato la straordinaria stagione del Rinascimento italiano. Quei decenni che separano quest’opera dal Galateo overo de' costumi (1558), manuale di belle maniere dell’arcivescovo Giovanni Della Casa, segnano il passaggio culturale dall’Umanesimo alla vocazione didattica della Controriforma, la cui base di ascolto si allarga dalla cerchia cortigiana: silenziosi testimoni stanno i più celebri ritratti dei due letterati: il “cortese” e soppannato Baldassarre dell’aulico Raffaello, e l’austero, incisivo Monsignore dell’inquieto Pontormo.