9. L’Italia s’è desta: fra Autarchia e nuove prospettive

Moda e design

La ferrea volontà di “Italianizzare” la moda percorre strade diverse ma complementari.

 

1) La linea dell’autarchia, già avviata nel 1848 alla vigilia dell’Unità d’Italia con il vestito nazionale confezionato in velluto (unico tessuto di genuina provenienza italica), era il criterio sostenuto dall’iter istituzionale con la fondazione di enti ad hoc, dalla Società italiana per l’emancipazione delle mode, nel 1872, fino all’Ente nazionale della Moda fondato nel 1932 dal regime fascista con il compito di certificare e difendere l’“italianità” della produzione nazionale.

 

2) La linea “delle donne” era portata avanti dalle riviste a partire dal “Corriere delle Dame” di Carolina Lattanzi, poi da «Margherita», «La nostra Rivista», «Lidel», dirette da donne sensibili ai fermenti in corso come la liberazione del corpo delle donne. Di base restava la volontà al recupero del patrimonio culturale, come Rosa Genoni, lodata anche dai sarti parigini, che ricercava l’ideale artistico rinascimentale, come nel famoso abito la Primavera del 1906, dove alla preziosità di ricami e finiture in onore alla tradizione locale, si legava la ricerca di una linea semplice e fluida e della comodità nei movimenti; qualità già suggerite dall’opera di Botticelli, icona di molta intelligentia coeva, che ispirò le “danze libere” della Duncan, emblema di donna emancipata, libera di muoversi nella società.

Dopo decenni di battaglie le donne ottenevano maggior credito anche nel lavoro, rivelando creatività unita a doti imprenditoriali, pure di fronte al dramma del primo conflitto mondiale. Dopo la guerra anche gli equilibri della Moda furono stravolti, inabissando imperi come quelli di Paul Poiret, tanto rivoluzionario nelle linee e nel marketing, quanto ancorato al leggiadro lusso mondano della società belle époque che ancora occhieggiava dai manifesti pubblicitari. Ormai ritenuto fuori moda dovette cedere il passo alla genialità di due donne dagli stili contrapposti: l’eleganza “restauratrice” di Jeanne Lanvin, dai virtuosismi sartoriali e i complessi ricami e la classe essenziale di Gabrielle Chanel, che traducendo la sobrietà dell’abbigliamento maschile e la funzionalità di quello sportivo (semplicità nel taglio, linearità delle fogge e praticità dei materiali come il jersey), creava un nuovo ideale di eleganza e di femminilità. Ideale riassunto negli intramontabili tailleurs e nel petit noir del 1926.

 

3) L’esaltazione delle qualità manifatturiere (interpretazione più che creazione)

Tornando all’Italia, nel 1911 l’Esposizione universale dedicata a “industria e lavoro”, incoronava Torino capitale italiana della moda: per le numerose sartorie e modisterie attive in città, più che per la genuina autonomia creativa. Si intensificò la ricerca sui tessuti (come Maria Gallenga che realizzò stoffe e colori inediti) e sui modelli, per plasmarli più «italici» con il sostegno dell’Ente nazionale per l’artigianato e la piccola industria.

L’unico lampo di originalità venne dal movimento futurista. Nel Manifesto del Vestito Antineutrale (1914) Giacomo Balla promuove l’abito «dinamico, aggressivo, urtante, volitivo, violento, volante, agilizzante, gioioso, illuminante, fosforescente, semplice e comodo, di breve durata, igienico, variabile». Del 1920 il Manifesto della moda femminile futurista, ancora a favore di asimmetria e stravaganza e nel 1933 perfino il Manifesto futurista sulla cravatta italiana.

 

Ma ciò non inciderà sulla visione del regime di Mussolini: strumento di consenso politico, la moda del Ventennio usò anche le congenite formosità delle italiane come simbolo del patrio benessere, opponendolo alla longilinea esilità del modello di femminilità francese. In questi anni la moda italiana riuscì a esprimere originalità solo nell’esaltazione delle tradizioni folkloristiche e delle lavorazioni artigianali come ricami, pizzi, merletti, perline di vetro veneziano che donarono agli abiti femminili un inconfondibile tocco di italianità.

 

9.1. La produzione nazionale alla prova dell’industrial design

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 “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschee dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia…” (F.T.Marinetti, Manifesto futurista, 11 febbraio 1909).

 

Il movimento di massima rottura “globale” con il mondo ottocentesco, si annuncia con parole che di fatto contengono tutto l’humus della cultura che ha nutrito il periodo detto Liberty: un moderno cuore tecnologico, “elettrico”, che anima con linguaggio simbolico figurazioni cosmologiche di sapore “orientalista”. Sembra di vederlo, il padre dell’avanguardia italiana (e non solo), seduto sulla sua sedia firmata Bugatti, a redigere uno dei proclami più antiaccademici della storia. L’”atavica accidia” ci ricorda il ritardo italiano nel rinnovamento formale del Modernismo, specie nelle cosiddette “arti industriali”, non del tutto imputabile all’arretratezza dell’industria, che in città come Milano e Torino, ad esempio, godeva di un’assestata tradizione. Si può concordare con Fabio Benzi, che l’ostacolo è rintracciabile in “uno strato sociale assai cospicuo di artigiani che proseguivano un magistero creativo e tecnico di portata impareggiabile rispetto a quello di altri stati europei, che trovava una continuità fin dal Rinascimento e con prodotti di qualità tecnica eccellente. A questo larghissimo strato sociale, di cultura eminentemente tradizionale (i cui echi sono ancora oggi vivi in molte città italiane) e non intellettuale-cosmopolita, facevano riscontro una borghesia e una nobiltà altrettanto poco dinamiche, frenate nell’innovazione del gusto dal peso delle proprie stesse tradizioni. I manufatti d’arte industriale, pur attivamente presenti,si limitavano così all’imitazione pedissequa degli stili passati, come rivelano le molte esposizioni di settore organizzate nei primi decenni del Regno Unito. Nonostante il sostegno ufficiale di una politica volta alla diffusione e all’istruzione (con la creazione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria e la fondazione di Musei di arte industriale a Torino, Roma, Napoli e Firenze), a rompere il muro di provincialismo furono pittori e scultori, attivando scambi con il resto d’Europa, soprattutto con Parigi, dove erano già di casa De Nittis, Boldini e Medardo Rosso, d’Annunzio e Marinetti, Fortuny e Carlo Bugatti, che fu originariamente pittore, ma già dal suo clamoroso esordio nel design del mobile, all’Italian Exhibition di Londra del 1888 propose un lessico altamente innovativo e sofisticato, sostanzialmente Liberty: asimmetrico, innervato di linee curve e sciabolate, da diagonali dinamiche, a cui miscelerà suggestioni dell’Oriente: arabeggianti e giapponesi, cinesi e indiane. Similmente realizzerà i mobili di casa Segantini, decorati con racemi giapponeggianti dallo stesso pittore, “quasi cognato” del Bugatti. Ma, a conferma dell’assunto precedente, al grande successo goduto in Europa da questi straordinari “pezzi” di design, farà riscontro l’oblio in patria.

 

Non si può negare che sulla linea, ora fiorita ora esotica, dell’arte Liberty alitino i venti d’oltralpe, come nella linea più geometrizzante affiora l’accento tedesco (leggi Jugendstil e Wiener Werkstatte), ma una vera specificità italiana appare la capacità di recuperare anche l’osservazione del Rinascimento come matrice dello “stil nuovo”, specialmente nelle sue originarie culle: Roma e Firenze saranno i luoghi privilegiati per l’elaborazione di questo innesto, di cui d’Annunzio appare centro ideale: Sartorio, Cellini e soprattutto De Carolis, illustravano le sue opere cercando una modernità che unisse echi di Michelangelo e Leonardo, Botticelli, Mantegna e i “tipi” di Aldo Manuzio con risonanze di Klinger e Burne-Jones. Far rivivere insomma “i mirabili ritmi del Rinascimento: non come esercizio accademico, ma come sublime gioco intellettuale” (Benzi). E mentre a Firenze il richiamo rinascimentale vedrà gli esordi Galileo Chini, soprattutto con le decorazioni parietali, a Roma vi si assoceranno le citazioni in gotico-fiabesco di Gino Coppedè per l’omonimo quartiere residenziale.

9.1.1. Il Mobile Liberty

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Dalla indiscussa genialità di Carlo Bugatti discende una generazione di ebanisti milanesi. Alla data del successo londinese di Bugatti, nel 1888, Eugenio Quarti apre la sua piccola officina, dopo un apprendistato in Francia e accanto al “maestro”: periodo breve, ma che lascia un influsso fino all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898. Proveniente da una famiglia artigiana di stipettai, Quarti è un esperto ebanista che usa legni pregiati, cura i particolari bronzei e gli intarsi in madreperla e fili di bronzo, che saranno man mano più evidenti e discosti dall’orientalismo bugattiano, verso l’approdo ad uno stile personale, un Liberty italiano prezioso e inconfondibile, tanto che Vittorio Pica gli dedicherà un articolo illustrato sulla rivista Emporium dell’ottobre 1899.

 

A differenza dell’irrequieto spirito “artistico” di Bugatti, che vende i suoi modelli come fossero brevetti (per tutelarsi dalle copie) e, nonostante i tentativi, resta circoscritto ad un mercato artistico-artigianale d’élite, Quarti pur restando legato all’amore per il mestiere, per i materiali e per la perfetta esecuzione, diventa un grande industriale, specializzandosi in grandi commesse di arredi completi. Lo stesso avviene per Carlo Zen e il figlio Pietro che, con un riuscito processo di industrializzazione della loro Fabbrica Italiana Mobili, riescono a fornire produzioni nel nuovo stile modernista, intarsiate e dipinte, diversificate sia per i costi che per gli stili, pur all’interno di modulazioni floreali.

 

Sono molti i pittori e gli scultori che in questo periodo diventano artisti-artigiani e ebanisti-industriali, dando spazio alla pittura e alla decorazione cromatica nelle opere di ebanisteria, come Giacomo Cometti e Alberto Issel.

Quella formata da Ernesto Basile e Vittorio Ducrot è forse l’esperienza più originale nella rivendicazione di “latinità” del nuovo stile. I mobili creati dall’artefice di Villa Igiea per la ditta Ducrot sono vari e duttili, legati alla sua architettura, ma altresì pensati per la produzione in serie, tanto da annoverarlo come il primo industrial designer italiano all’altezza di quelli attivi in situazioni nazionali più avanzate industrialmente. Dalle committenze palermitane dei Florio agli arredi per la Biennale del 1903, al caffè Faraglia di Roma, ai disegni per tappeti, lampade e stoffe, ceramiche, ferri battuti, vetrate e paramenti, Basile conserva uno stile autonomo e inconfondibile, continuamente aggiornato pur nella consapevole aderenza alla cultura siciliana.

Menzione a parte merita la vicenda di Aemilia Ars, società cooperativa nata a Bologna nel 1898, vera e propria “gilda” di artisti, decoratori e artigiani, ispirata a un’ideologia di avanzato rinnovamento sociale, morale ed estetico, ma in grado di mettersi in contatto operativo con industrie, artigiani e laboratori del territorio. Pur nel breve periodo di vita, riescono a creare prodotti armoniosi, calibrati fra reminiscenze del passato e istanze moderniste. Alla sua liquidazione, a inizio 1904, sopravvivrà soltanto la produzione di ricami, presente ancora per decenni nello storico negozio del centro di Bologna.

9.1.2. L’industria ceramica

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Nell’industria ceramica il retaggio dell’alta tradizione artistico-artigianale, i cospicui profitti generati da un mercato estero che supporta la passione dell’antiquariato richiedendo copie fedeli o rifacimenti dei manufatti “storici” (uniti all’alto costo delle nuove tecnologie), giocano un ruolo di deterrente all’innovazione formale. Ma alcune aziende lungimiranti capiscono l’aspirazione degli artisti “nuovi” (primi fra tutti Adolfo De Carolis, Duilio Cambellotti, Arturo Martini e Galileo Chini) di misurarsi con le arti fin qui ritenute minori, ma che abbracciavano in un’unica ricerca la loro concezione estetica e offrivano la possibilità di testare materie e tecniche diverse. Una delle “arti” più frequentate fu la ceramica, per sua natura la più vicina a quella sintesi alchemica cara alla poetica simbolista a cui il Liberty non fu immune (una simile attrazione si manifesta nei confronti del vetro, materia anch’essa fatta di terra, acqua e fuoco). I prodotti ceramici inoltre erano i più vicini all’oggetto d’uso quotidiano, attraverso il quale far penetrare la democratizzazione della bellezza totale, aspirazione anch’essa in prima linea negli scopi dei movimenti dell’Arte Nuova, dalle Arts and Crafts, alla Wiener Werkstätte, fino alla Bauhaus. Anche se in Italia non vi furono veri movimenti-azienda, a parte il breve tentativo di Aemilia Ars, si realizzarono collaborazioni importanti fra alcune fabbriche e i singoli artisti-designer (una visita al mirabile Museo Internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908 a Faenza, sarebbe illuminante).

 

Oltre alla centralità di Faenza (e il contributo donatovi da Domenico Baccarini), “è interessante segnalare una curiosa intersecazione anglo-italiana, realizzatasi a Firenze. È noto come la città toscana fosse meta di pellegrinaggi di intellettuali e artisti di tutta Europa, ma particolarmente inglesi e tedeschi, e dunque vivesse (come peraltro Roma) una condizione di aperto e vasto cosmopolitismo. Negli anni Ottanta il grande ceramista inglese William de Morgan si recò diverso tempo a Firenze per studiare nella fabbrica di Cantagalli (era amico di uno dei dirigenti) la tecnica del lustro ceramico. Un raro albarello [vaso di farmacia] a lustro metallico rosso e a disegno di pavoni, databile alla metà del nono decennio, indica con sicurezza il frutto di questo contatto e degli scambi proficui tra gli Arts and Crafts inglesi e il patrimonio figurativo e tecnico italiano. E allo stesso tempo indica come i prodotti della celeberrima fabbrica, esportati in tutto il mondo, potessero influenzare il nascente gusto Liberty europeo” (Fabio Bensi). In realtà la Manifattura di Ulisse Cantagalli è soprattutto nota per la bravura nell’ “imitare” passati stili gloriosi, ma, come dimostra il vaso “a testa di gatto” del 1902, uno dei pezzi più significativi del periodo, il pur breve passaggio di De Carolis nella ditta ha avuto il suo seguito, così come lo ebbe nella Società Ceramica Artistica Fiorentina e nella Manifattura Ginori di Doccia, che pur nella fusione alla lombarda Richard darà valore al design dell’oggetto, come accadrà in “area Decò” (1923-1930) con la direzione artistica di Gio Ponti.

Esemplare è il caso di Galileo Chini, artista “totale”, che nel 1896 si emancipa in senso modernista gestendo una fabbrica tutta sua, L'Arte della Ceramica: “ispirata prima a una lineare interpretazione del preraffaellismo, poi a un versatile e straordinariamente moderno repertorio di forme e di colori, tra i più alti raggiungimenti del genere in Europa” (F. Bensi). Il fascino subito dall’oriente fin dagli esordi si impone qui nelle rutilanti cromie, nei lustri cangianti delle maioliche e persino nella ricerca, nell’emulazione tecnica del grès cinese, che costituisce una delle novità della sua fabbrica, divenuta nel 1906 la Manifattura Fornaci San Lorenzo.

 

9.1.3. L’arte del ferro battuto

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La moda del Liberty fece rivalutare anche l’antica arte del ferro battuto, dopo la battuta d’arresto del rigore Neoclassico, grazie anche ai ritrovati della tecnica come le macchine a vapore e la saldatura ad ossigeno, che permettevano agli artigiani fabbri di mettere a frutto tutta la loro maestria: cancelli, ringhiere e balconi, suddivisi in spazi ben ritmati e ricchi di linee morbide ispirate della natura vegetale e animale, rianimarono gli spazi architettonici esterni e interni. Ciò favorì un’alta collaborazione fra gli artisti dei vari settori, dall’architetto al decoratore d’interni, alle manifatture di ebanisteria, di lampadari e oggettistica.

 

L’ambiente milanese, influenzato dalle riviste e dalla grafica Jugendstil dette origine a botteghe di alto artigianato come quella creata da Alessandro Mazzucotelli: qui uscirono opere raffinate e ricche di invenzioni formali, che si espressero pienamente nella collaborazione con Giuseppe Sommaruga (architetto allievo di Camillo Boito) in alcune delle più significative realizzazioni di ferro battuto del Liberty, come nel palazzo Castiglioni, al cui arredo contribuì Eugenio Quarti.

 

Gli ideali socialisti umanitari, uniti alla passione didattica, legano Mazzucotelli ad artisti artigiani come Duilio Cambellotti, Giacomo Cometti e Eugenio Quarti, anche lui insegnante alla Scuola Umanitaria per “arti e mestieri” di Milano, istituzione ancora esistente, da cui nacque nel 1922 il famoso ISIA (Istituto Superiore di Industrie Artistiche) di Monza. Queste scuole, basate sul principio dell’educazione e dell'apprendimento di un mestiere come strumenti per l'elevazione sociale dei meno abbienti, costituivano una sorta di accademia di formazione all'artigianato, dei professionisti delle arti decorative. Dalla necessità di esporre al confronto le opere degli allievi dell’Istituto in un apposito spazio (che fu però subito aperto ai contributi artistici internazionali), la Villa Reale di Monza ospitò dal 1923 le Biennali delle arti decorative, che nel 1930 divennero Triennali e costituirono la premessa per l'attuale Triennale di Milano. Tra gli artisti partecipanti alla I Biennale troviamo Giò Ponti, Marcello Nizzoli, Fortunato Depero.

Se a Mazzucotelli spetta un posto di riguardo fra gli artisti del ferro nel periodo Liberty, dobbiamo ricordarne anche l’alta tradizione bolognese e Sante Mingazzi, che si distinse nella produzione di pregevoli pensiline in vetro e ferro battuto (come quella in via D'Azeglio a Bologna). Aderì all’esperienza del gruppo Aemilia Ars, "società protettrice di arti e industrie decorative nella regione emiliana", manifattura artistica che, sull'esempio dell'Arts and Crafts Movement di William Morris, produsse oggetti d'uso quotidiano (pizzi, mobilia, gioielli, tipografia) di raffinata esecuzione.

Alberto Calligaris, assieme ad Alessandro Mazzucotelli, è stato collocato dalla storia ai vertici dell’arte del ferro lavorato a caldo in Europa. Calligaris, che nel 1910 ha ricevuto il primo premio per le arti decorative all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, è il geniale forgiatore di uno stile personale ed eroico, forse più vicino al neo-Luigi XVI (stile più colto e aristocratico, ripreso da quello di Luigi XVI, alleggerito con il colore bianco, che fu detto ironicamente "stile ghirlanda" per l'uso massiccio che ne fece) che al Liberty: “le ghirlande di rose imperversano, ma con una forte presenza del linguaggio formale classico, dai girali alle palmette fino ai bucrani. Dentro l'esuberanza decadente delle rose, questa irruzione della romanità antica crea una dimensione eroica del tutto inedita, che non ricorda nient'altro, se non le atmosfere letterarie di D'Annunzio” (Walter Pagliero).

 

9.2. La belle époque nei manifesti pubblicitari: la grafica Liberty

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“Niente stile Liberty … espressione venuta in Italia, e quasi ignota all’estero, almeno a chi ha un concetto esatto dell’Arte Nuova. Da essa sorsero le espressioni complementari di stoffa Liberty, tono Liberty, le quali, nate da un errore noi non adotteremo né ora né poi. Arte Nuova, stile nuovo, stile moderno, ecco come devesi chiamare l’arte che rappresenta l’attuale movimento estetico da chi vuole essere esatto e chiaro” (Alfredo Melani, L’Arte Nuova e il cosiddetto stile Liberty, 1902).
 
La sdegnata nota del critico “modernista” rileva l’ambiguità del nuovo linguaggio stilistico, insita già nell’aura di libertà di quel nome: Liberty. Libertà creativa e originalità che è qualcosa di più e di meno di un “movimento”, poiché libera dai dettami programmatici di questo, ma suscettibile di adattarsi a inclinazioni individuali, territoriali e temporali: dall’evolversi dalle Arts and Crafts, alla scuola di Glasgow, al Modernismo catalano, alla Wiener Werkstatte e alla stessa Art Nouveau, il cui nome deriva da un negozio, come nel caso italiano. Non un difetto di per sé, anzi, uno dei dati più “moderni”, e sottolinea che vi era “nella natura, nell’essenza stessa di quell’Arte Nuova, una contaminazione profonda con il mercato, con il commercio, con la diffusione mediatica: che, essendo fattori lucidamente enunciati a livello teorico, entrano poi con evidenza nella natura profonda degli stessi manufatti” (F. Benzi).
 
Il progresso delle tecniche fotografiche, litografiche e tipografiche è stato basilare nella diffusione del nuovo stile. La grafica pubblicitaria, ricreata in Francia da Toulouse Lautrec e Jules Chéret a “nuova arte”, sarà per l’Italia foriera di rinnovamento: Carpanetto, Villa, Metlicovitz, Beltrame, Umberto Brunelleschi, Dudovich e tanti altri, cartellonisti che hanno diffuso i marchi (brand) dell’emergente produzione industriale e artistica, orientando la ascesa dei nuovi status symbol: l’automobile, l’abbigliamento, la villeggiatura, i generi alimentari, come l’olio Sasso illustrato da Plinio Nomellini, vero fuoriclasse, come Galileo Chini. Artisti forniti anche di grande intuito commerciale nell’elaborare l’immagine del prodotto: pensiamo alle serie della Fiat, del Campari, dei grandi magazzini come la Rinascente di Milano e, primi fra tutti, i F.lli Mele di Napoli … una vera antologia dello stile di vita targato Belle Epoque.
 
La dinamicità del settore dell’illustrazione e delle arti applicate in genere (richiesti dalla “democratizzazione” dei beni di consumo), surclassa la marginalità rispetto alle arti “libere” in cui l’imperante cultura accademica, borghese e conservatrice, le aveva relegate: ciò ha concesso più libertà di espressione e innovazione, anche per le caratteristiche insite nelle tecnica grafica stessa, incline alla sintesi della forma e alla fluida linearità del segno, tratti peculiari del Liberty. Non va tuttavia omesso l’influsso del “giapponismo”, che irruppe in Europa attraverso le stampe giapponesi importate dalla Compagnia delle Indie dal 1854, alla riapertura dei mercati d’Oriente. Come dire “la cosa giusta al momento giusto”: taglio fotografico delle composizioni, sviluppo bidimensionale a colore piatto, privo di chiaroscuri, una linea curva, semplice e sinuosa a suggerire l'idea del movimento, come i soggetti, dalle onde alle inafferrabili nuvole, i motivi vegetali e animali giocati spesso in sequenza dinamica, simili a fotogrammi, come la serie de La grande onda di Hokusai; e poi il simbolismo naturale nei soggetti e nella forma, con la stilizzazione della figura umana stretta nei Kimono, come quelli di Sada Yacco, ispiratori anche della moda, da Fortuny a Poiret.
 
Enorme fu il peso delle riviste: da Emporium, Scena Illustrata, Cronaca Bizantina, Hermes, Novissima, L’Italia Ride … per citarne alcune in ordine e genere sparso proprio per segnalare l’ampiezza di diffusione di uno “stile”, di un “gusto”, che lo si denomini Liberty, Belle Epoque, Fin de siècle, floreale: un’attitudine posta fra decadentismo estetico e avanguardia futurista, fra rilettura (non più revival) di epoche passate e frenesie tecnologiche, fra mistica simbolista e “poetica” del quotidiano, a seconda dell’aspetto che si vuol privilegiare di quell’intricato e vivissimo periodo racchiuso fra il 1880 e la prima guerra mondiale; questa sconvolgerà tutti gli assetti, ma certi presupposti formali del Liberty fluiranno, quasi per mutazione genetica, nell’Art Decò.

9.3. Gli equilibri della moda

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Evocando lo stile Liberty sorge un’immagine di donna flessuosa e conturbante nelle fluide vesti, che si “avvita” sul vitino di vespa a disegnare la celebre “linea a S” con la mimica di un serpente incantato: dal breve strascico fino alla fiera testa dritta sul collo fasciato, a incoronarsi nel grande cappello piumato. Donne sensuali e sfuggenti come le dinamiche pennellate di Boldini, loro sommo interprete; donne dai nomi indelebili nella memoria collettiva: Lina Cavalieri, Marguerite Rejan, Loïe Fuller, Bella Otero, Sarah Bernhardt, donna Francesca Florio, marchesa Casati … Dame dell’aristocrazia e dive dello spettacolo sono i simboli di seduzione e di eleganza Belle Epoque, fra matinées e soirées, all’ippodromo o a teatro, seguite da signori compiacenti nei relativi tight e frac o smoking (unica “novità” nell’armadio maschile).

 

Seguendo la forte marca simbolista dell’epoca, si può evocare in quell’avvitamento l’elica dei nuovi motori che domavano le leggi della statica: l’automobile, l’aereo, fino alla pellicola del neonato cinema, che si srotolava davanti a platee cittadine sempre più ampie e popolari… Tutto accelerava e si disarticolava, come ben intuivano gli artisti più acuti: così gli occhi, languidi o alteri dei ritratti “conformi” delle dame, ora fissano immoti dai volti sgangherati delle “Demoiselle” di Picasso, con la crudezza di un rito voodoo: è il 1907, la linea a “S” è divenuta una “Z” che perfora l’opprimente busto: e Poiret ne afferra subito il concetto proponendo una linea che ricorda lo stile impero, un modo di vestire più semplice e pratico, con la vita alta e la gonna stretta e lunga, con quel tanto di orientalismo che alla fine conquista il gusto delle donne, surclassando definitivamente le Maisons Worth e Doucet, suoi passati maestri.

 

Il bon ton ovviamente comportava una veste per ogni occasione, adeguata al ruolo mondano da interpretare: abiti da casa, da passeggio, da carrozza, da visita, da ballo, da lutto, da mezzo lutto e, in grande auge, abiti da viaggio e per lo sport. È chiaro che a stabilire le regole era sempre il bel mondo à la mode, di elevata appartenenza sociale; regole poi diffuse alle donne della media borghesia attraverso le proliferanti riviste femminili (e non) “calmierate” dagli eccessi, rivedute e corrette verso la stabilizzazione di un tipo di donna più “addomesticata”, ma più realistica, quella che decreterà il trionfo del tailleur.

Al di là di tutte le avanguardie (tali anche le “suffragette”), erano presenti sul territorio una quantità di iniziative e personaggi, molte delle quali donne appunto, che operavano al dissodamento e alla semina di un nuovo parterre di operatori e acquirenti preparati, consapevoli delle istanze della modernità, in costante equilibrio fra tradizione artistico-artigianale e diffusione industriale, che costruiranno le solide basi di una rinascita nazionale, fuori dal clamore mondano, che porterà qualche decennio e qualche “guerra” dopo, al “miracolo” del Made in Italy. Professionisti impegnati nella didattica, nel giornalismo di settore, nell’associazionismo, come Rosa Genoni, Rosa Menni Giolli e tutti quei professionisti impegnati nelle scuole per l’apprendimento delle “arti applicate”: a Milano, Torino, Firenze, Venezia, Napoli, Monza … alcune già attive da decenni, altre in formazione.

 

È in questa tornata di anni che si formano i nuclei di molte future aziende leader del settore: ora di impianto più artistico- artigianale, da Maria Monaci Gallenga a Vittorio Zecchin, o dalla vocazione più industriale come Luigi Bianchi che nel 1907 costituì il nucleo originario dell’attuale Lubiam, o imprenditori come Senatore Borletti, i Marzotto, Ermenegildo Zegna, Nazareno Gabrielli nella lavorazione del cuoio, firma tra le più prestigiose nell’industrial design applicato alla moda e, prima ancora, Giuseppe Borsalino (dal 1834), che portò la sua collaudata fabbrica di cappelli ad essere, al volgere del secolo, all’avanguardia industriale e nella politica assistenziale. Molti furono anche gli enti promotori e i comitati: fra i più importanti quello lombardo per “Una moda di pura arte italiana” (1909), o le iniziative nell’ambito dell’Esposizione Universale di Torino del 1911, con la realizzazione del Palazzo della Moda. Gli intenti erano chiari: “D’ora innanzi non sarà più una necessità spostarsi dal nostro centro solito di lavoro o di affari, né intavolare lunghe noiose corrispondenze con le case estere per vestire con solida eleganza” (La Donna, 1911. Periodico. Numero speciale per l’Esposizione torinese).

9.3.1. La moda “pratica”, tailleur, paletot e abiti per lo sport

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Spensieratezza, ottimismo e divertimenti, feste, concerti, balli e ricevimenti: tale è la prima impressione lasciata ai posteri dalla Belle époque, con la sua moda vaporosa e spumeggiante. Ma l’aspetto più incisivo, quello per cui “niente sarà più come prima” è il fenomeno dell’inurbamento che, in crescendo dall’Unità d’Italia, inizia a colpire anche il bel paese, soprattutto l’industrioso nord.

 

Nelle città la vita si fa frenetica, cambia il modo di vivere, di abitare, di muoversi e di divertirsi. Gli spazi sono più ristretti, più “costruiti” e al contempo dispersi nel tessuto cittadino: da casa al lavoro, dal lavoro al cinema, al museo, al teatro, al parco … e poi di nuovo a casa, fino alla domenica: a passeggio sul “corso”, sul fiume, a pattinare o in campagna, magari a cavalcare, al tennis, al golf, o ancora meglio in gita, a sciare, nuotare … in villeggiatura. Insomma, un su e giù da carrozza a cavalli, tram e omnibus, automobili per i più fortunati e tante biciclette.

 

Così, mentre a Parigi le maisons de l’haute couture divenivano sempre più raffinate interpreti dei desideri delle gran dame di salotti e palcoscenici, altrove si brigava per rendere la vita quotidiana più agevole. In prima linea vi erano gli angloamericani, basti citare le Bloomers, a metà Ottocento, la Rational Dress Society o il chimico scozzese Mackintosh, per entrare nel vitale campo delle innovazioni tessili.

Ma il vero simbolo della donna nuova fu il tailleur. Composto da giacca e gonna (per il pantalone dovremo attendere ancora qualche decennio), il primo tailleur deriva dalla tenuta da equitazione ed è mutuato dal guardaroba maschile, tanto che, per la particolarità del suo taglio rigoroso, occorreva un sarto da uomo, in francese, appunto, “tailleur”. Le signore dell’alta società riconobbero la praticità di questo capo e iniziarono a indossarlo anche per passeggiare o per eventi pubblici. La paternità del capo va a John Redfern, specializzato in abiti sportivi e da cavallo, il preferito dalla regina Alessandra, moglie di Edoardo VII e icona di stile negli eleganti tailleur da viaggio. Fu appunto il sarto inglese a dare nel 1885 una linea precisa al nuovo “capo”, da indossare solo nelle ore del mattino e accentuato da accessori mascolini come il gilet e la cravatta. Le donne che dovevano misurarsi nelle diverse professioni, adottarono con gioia il tailleur, per la sua praticità e duttilità a varie situazioni: comparvero camicette lavorate con passamanerie, merletti e bottoni; corsetti molto meno attillati e gonne lunghe, tessuti leggeri e meno severi, in linea con il gusto del momento.

 

La diffusione degli sport richiese indumenti appropriati per ambo i sessi anche se quello femminile, per ovvi motivi di decenza, comportava maggiori compromessi: il costume da bagno doveva permettere il movimento in acqua, ma scoprire meno epidermide possibile; il completo da amazzone per l'equitazione comportava una lunga gonna a strascico, per coprire le gambe quando la donna cavalcava, scomodamente seduta di fianco sulla sella. Per i nuovi sport, come il golf, il tennis, lo sci e la bicicletta (dopo il 1890 comparirono gli abiti per le cicliste e i primi tentativi di ripudio della sottana con larghi calzoni alla zuava, chiusi sotto il ginocchio e una corta tunica a nascondere i fianchi), si avranno comode giacche di maglia e golf più sportivi,con la relativa ascesa dell’industria della maglieria e della maglia-stoffa, il jersey, che nel primo dopoguerra sarà il cavallo di battaglia di Chanel.

 

Dall’inizio del nuovo secolo si diffusero i paletots, soprattutto per l'inverno, tipici soprabiti maschili con chiusura a doppio petto e lunghezza fino al ginocchio che assunsero una linea sempre più diritta e larga con l’abolizione del taglio in vita e ampliando i revers del collo. Si preferì per il paletot un colore più chiaro rispetto a quello dell'abito e vennero proposti anche modelli più sportivi accanto a quelli più eleganti. Inarrestabile la nuova moda del “trench-coat” (soprabito da trincea): doppio sprone alle spalle, spalline, cinturini ai polsi e al collo, grande bavero e cintura con fibbia rettangolare foderata in pelle. Già nel 1824, a Glasgow, Charles Mackintosh impiantò la prima fabbrica di soprabiti in tessuto impermeabile di lana di suo brevetto, seguito da Burberry, che dal 1856 produsse il primo modello di impermeabile in gabardina. Lo trasformò in un capo da uomo e da donna, curandone anche l’eleganza A partire dal 1920, il Burberry in versione classica di soprabito impermeabile, doppio petto, beige, con fodera tartan beige, a righe nera e rossa, maniche a raglan e cintura, è proposto con successo fuori dall’ambito militare e diviene un classico dell’abbigliamento maschile. Da non scordare il Barbour, giaccone impermeabilizzato in cotone oleato, oilskin, venduto, a partire dal 1894, da John Barbour nel suo negozio della città marittima inglese South Shields, rappresenta un caso esemplare di identificazione di un marchio con un prodotto.

Questi capi, di taglio più semplice e essenziale permisero una rapida produzione industriale anche per la minore specializzazione richiesta alla mano d’opera. Inoltre parte del lavoro poteva essere gestita all’esterno, soprattutto per la maglieria, aspetto che ne permise una grande espansione anche in Italia In Toscana, Empoli ne divenne un centro di produzione, dalla Barbus in poi (1907); al nord sorse la English Fashion Waterproof (1912, poi Valstar).

 

BIBLIOGRAFIA

Ivan Paris, Oggetti cuciti. L'abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Franco angeli Ed., 2006

9.3.2. Donne, artiste e vecchi merletti

Moda e design

Ad alimentare la schiera di donne industriose (senza distinzione di classe sociale) negli anni “belle epoque”, concorrono molte attività legate al settore della moda. Giornaliste, sarte, decoratrici, artiste come Maria Rigotti Calvi, che studiano e insegnano, come Rosa Genoni, sarta, pubblicista, socialista anti interventista, che cercò sempre di applicare nelle sue collezioni, nei costumi teatrali, nella didattica (dal 1905 è alla Società Umanitaria di Milano, direttrice e insegnante della Sezione sartoria della Scuola professionale femminile e docente di Storia del costume), le nozioni apprese nell’apprendistato parigino, adattandole al tessuto sociale italiano, battendosi per la formazione di un’associazione di lavoratrici nel campo della moda e sostenendo la produzione di abbigliamento su scala industriale, come strumento di democratizzazione della società. Tuttavia restò sempre convinta che lo studio del passato artistico avrebbe ispirato il rinnovamento: ciò che infatti più si ricorda di lei sono gli abiti ispirati al Rinascimento italiano, come il manto di corte alla Pisanello o l’abito in raso rosa pallido con la preziosa sopravveste di tulle color avorio a ricami floreali come la Primavera di Botticelli, tutti realizzati con tessuti autoctoni a ulteriore difesa del patrimonio nazionale.

 

Sulla stessa linea Rosa Menni Giolli (tra le fondatrici dell’UDI, Unione Donne Italiane nel 1945), attiva soprattutto nel settore tessile, di cui riprende la tradizione nazionale innovandola tramite tecniche e stilemi orientali, come il batik giavanese (particolare pittura su cotone, diffusa dall'Esposizione universale di Parigi del 1900). Anche la Liberty &co. richiese a Rosa alcuni disegni e lo stesso d’Annunzio, versione di dandy italico, le ordinò cuscini, tappeti e anche pigiami e vestaglie per il Vittoriale. A ornare la dimora del poeta concorrerà anche Vittorio Zecchin, artista di Murano, a contatto con artisti della Secessione viennese, autore del ciclo pittorico-decorativo Le Mille e una notte (1914) all’Hotel Terminus, “capolavoro della pittura liberty a Venezia”. Considerato il primo vero designer del vetro, avvierà la rinascita della tradizione muranese: interprete dell’unione delle arti, progettò anche arazzi e ricami (reinventando gli antichi merletti delle anziane donne nel “punto mio”, che imita con fili di lana e seta la consistenza della pennellata dei suoi quadri) in stretta collaborazione con il laboratorio di ricamo della contessa Pia di Valmarana e destinata ad estendersi anche a Maria Monaci Gallenga, come dimostrano le più importanti mostre di arte decorativa fino agli anni ‘30.

 

Oltre al recupero delle tradizioni locali, alcune società (ispirandosi alle esperienze inglesi dei vari Morris, Mackmurdo, o alla produzione Wiener Werkstätte), vollero realizzare tessuti, ricami e merletti con motivi creati da artisti contemporanei; molte erano promosse da nobildonne, come le contesse Lina Bianconcini Cavazza e Carmelita Zucchini, che intendevano offrire alle lavoratrici precarie una "industria sussidiaria, senza distoglierle dalla famiglia". Nel 1901 si unirono alla Aemilia Ars di Bologna, la società cooperativa creata nel 1898 dall'architetto Rubbiani e dal conte Cavazza, che forniva modelli tratti dal repertorio antico alle industrie e ai laboratori artigiani di gioielli, sculture, arredi in ferro battuto e mobili, riletti in gusto decisamente Liberty. Ma fu proprio la “nuova” sezione, l’unica a sopravvivere alla liquidazione del 1904 e continuare una prospera attività fino al 1936.

 

BIBLIOGRAFIA:

A. Antoniutti, Il tessuto Liberty: dalla tradizione al “nuovo stile”, in Il Liberty in Italia

Barbara Cantelli, L'Aemilia Ars di Antonilla Cantelli, Nuova S1