7.1. La rivalutazione delle Arti applicate tra industria e artigianato

Moda e design
John Flaxman, Wedgwood, Jasperware, vaso e coperchio, gres non smaltato

Arti democratiche”, le definiva il socialista William Morris, e ne idealizzava la rinascita medievale in cui ogni uomo potesse rendersi libero con il lavoro delle sue mani e, nello stesso tempo, circondarsi di oggetti belli e di qualità, rifiniti e durevoli, in antitesi all’invadente riproduzione industriale. Di fatto fu costretto a fare i conti con gli alti costi che il suo tipo di manifattura imponeva, limitandone la fruizione ai più, che continuavano ad avere miglior accesso ai prodotti dell’industria, che in Inghilterra vantava ormai un buon secolo di vita: le Arts and Crafts nascevano infatti nel 1861, mentre la Wedgwood, ad esempio, è targata 1759 (come appare sul sito web dell’azienda, a tutt’oggi una delle industrie di ceramica più rinomate al mondo, che ne mostra anche la gloriosa storia con immagini dal suo museo). L’arguto Josiah, con l’aiuto degli amici scienziati della pionieristica Lunar society, come Erasmus Darwin e Watt, già nel 1782 fece dell’Etruria (nome dal significato inequivocabile) la prima fabbrica dotata di un motore a vapore e vi introdusse una moderna divisione del lavoro: da un lato il designer, che per lungo tempo fu il neoclassico John Flaxman (dal 1775 al 1787), delegato alla progettazione delle forme e delle decorazioni dei manufatti; dall'altro gli artigiani, divisi in formatori, tornitori, plasmatori, decoratori e addetti alla rifinitura. Dalle celebri stoviglie creamware, ai “grecizzanti” basalti neri, fino ai raffinati e imitatissimi Jasperwares (oggetti in porcellana Jasper, lavorati in rilievo come cammei, con motivi antichi studiati nella ricca collezione che lord Hamilton aveva portato con sé da Napoli), l'esportazione a marchio Wedgwood suscitò entusiasmo in tutta Europa, tanto più forte in quanto la moda britannica cominciava allora a imporsi sul continente.

 

La distanza temporale fra questi due artefici non toglie la diversità di formazione e temperamento dei personaggi: Morris era pittore-poeta, Wedwood un imprenditore, seppur entrambi legati dal senso della ricerca e della sperimentazione. Entrambi sono citati nella storiografia del design come basilari pionieri, ma lo scarto nella concezione del rapporto arte-macchina li pone a guida di due linee parallele nella concezione delle arti applicate e non solo, due linee che alimentano l’animoso dibattito lungo tutto quel secolo e molto oltre, che ha teso a separare l’arte dalla tecnica, con esiti talvolta deleteri. Qui ritorna la differenza epocale, quel secolo che fa cogliere a Morris le degenerazioni insite in ogni progresso incontrollato. Il sogno medievele di Morris, vi agisce al suo tempo da ammortizzatore, come in fondo lo era stata la visione neoclassica, pur nell’impeto pre-romantico di “meravigliose invenzioni”.

E l’Italia? L’energia italiana dell’Ottocento è soprattutto impiegata nella “fabbrica” unitaria: D’altronde il ritardo tecnologico è almeno servito a perfezionarne l’innato senso artigianale; quanto alla tradizione classica, è intimamente metabolizzata. Il problema del progresso si pone fortemente nei termini di questa tradizione: tralasciando la corsa alla “novità” e puntando alla “trasmissione”, ad una corretta divulgazione, incentivata dalla crescente richiesta di maestranza artigianale e artisti decoratori e che l’imperante stile eclettico richiedeva ovunque sul mercato. Su tali presupposti si fonda la concezione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria, da tempo al centro del dibattito europeo sull’importanza del tirocinio formativo dell’artigiano e il suo collegamento alle istituzioni artistico-accademiche, come già aveva sostenuto Gottfried Semper. In Italia fu interprete di tale esigenza Camillo Boito, tuonando sulla totale insensatezza culturale e economica di una tale separazione:

 

…tentano di distinguere le arti superiori dalle arti applicate alle industrie, o più brevemente industriali, col dire che le prime intendono al bello, le seconde all’utile. Non so veramente se le prime guardino sempre al bello, massime al dì d’oggi. Nego che le seconde mirino all’utile, perché all’utile mira l’industria; ma forse si vuol significare che intendono abbellire l’utile, il che nella maggior parte dei casi è vero. […] All’opposto la legge sulle scuole d’arte applicata alle industrie, presentata alla camera dei deputati […] torna a sanzionare il distacco assoluto fra le arti cosiddette superiori e le arti cosiddette decorative e industriali, fra i musei di queste e i musei di quelle […]. Non c’è altro che togliere questa (l’arte minore) al Ministero di Agricoltura e Industria e Commercio per darla alla Direzione Centrale di Antichità e Belle Arti. E la faccenda s’andrebbe allargando. Entrerebbero in campo le scuole d’arti e mestieri, […] forse le scuole del museo industriale di Torino […]. Eppure io non posso staccarmi dalla visione di una grande Direzione Generale di Antichità e Belle arti […] la quale riunisse insieme le cose che non si possono ragionevolmente scindere: musei e arti belle, musei e scuole di arte applicata alle industrie" (C. Boito, "Le scuole di architettura di belle arti e di arti industriali", Nuova Antologia, 1890, V27, 41-51).