9.1. La produzione nazionale alla prova dell’industrial design

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 “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschee dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia…” (F.T.Marinetti, Manifesto futurista, 11 febbraio 1909).

 

Il movimento di massima rottura “globale” con il mondo ottocentesco, si annuncia con parole che di fatto contengono tutto l’humus della cultura che ha nutrito il periodo detto Liberty: un moderno cuore tecnologico, “elettrico”, che anima con linguaggio simbolico figurazioni cosmologiche di sapore “orientalista”. Sembra di vederlo, il padre dell’avanguardia italiana (e non solo), seduto sulla sua sedia firmata Bugatti, a redigere uno dei proclami più antiaccademici della storia. L’”atavica accidia” ci ricorda il ritardo italiano nel rinnovamento formale del Modernismo, specie nelle cosiddette “arti industriali”, non del tutto imputabile all’arretratezza dell’industria, che in città come Milano e Torino, ad esempio, godeva di un’assestata tradizione. Si può concordare con Fabio Benzi, che l’ostacolo è rintracciabile in “uno strato sociale assai cospicuo di artigiani che proseguivano un magistero creativo e tecnico di portata impareggiabile rispetto a quello di altri stati europei, che trovava una continuità fin dal Rinascimento e con prodotti di qualità tecnica eccellente. A questo larghissimo strato sociale, di cultura eminentemente tradizionale (i cui echi sono ancora oggi vivi in molte città italiane) e non intellettuale-cosmopolita, facevano riscontro una borghesia e una nobiltà altrettanto poco dinamiche, frenate nell’innovazione del gusto dal peso delle proprie stesse tradizioni. I manufatti d’arte industriale, pur attivamente presenti,si limitavano così all’imitazione pedissequa degli stili passati, come rivelano le molte esposizioni di settore organizzate nei primi decenni del Regno Unito. Nonostante il sostegno ufficiale di una politica volta alla diffusione e all’istruzione (con la creazione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria e la fondazione di Musei di arte industriale a Torino, Roma, Napoli e Firenze), a rompere il muro di provincialismo furono pittori e scultori, attivando scambi con il resto d’Europa, soprattutto con Parigi, dove erano già di casa De Nittis, Boldini e Medardo Rosso, d’Annunzio e Marinetti, Fortuny e Carlo Bugatti, che fu originariamente pittore, ma già dal suo clamoroso esordio nel design del mobile, all’Italian Exhibition di Londra del 1888 propose un lessico altamente innovativo e sofisticato, sostanzialmente Liberty: asimmetrico, innervato di linee curve e sciabolate, da diagonali dinamiche, a cui miscelerà suggestioni dell’Oriente: arabeggianti e giapponesi, cinesi e indiane. Similmente realizzerà i mobili di casa Segantini, decorati con racemi giapponeggianti dallo stesso pittore, “quasi cognato” del Bugatti. Ma, a conferma dell’assunto precedente, al grande successo goduto in Europa da questi straordinari “pezzi” di design, farà riscontro l’oblio in patria.

 

Non si può negare che sulla linea, ora fiorita ora esotica, dell’arte Liberty alitino i venti d’oltralpe, come nella linea più geometrizzante affiora l’accento tedesco (leggi Jugendstil e Wiener Werkstatte), ma una vera specificità italiana appare la capacità di recuperare anche l’osservazione del Rinascimento come matrice dello “stil nuovo”, specialmente nelle sue originarie culle: Roma e Firenze saranno i luoghi privilegiati per l’elaborazione di questo innesto, di cui d’Annunzio appare centro ideale: Sartorio, Cellini e soprattutto De Carolis, illustravano le sue opere cercando una modernità che unisse echi di Michelangelo e Leonardo, Botticelli, Mantegna e i “tipi” di Aldo Manuzio con risonanze di Klinger e Burne-Jones. Far rivivere insomma “i mirabili ritmi del Rinascimento: non come esercizio accademico, ma come sublime gioco intellettuale” (Benzi). E mentre a Firenze il richiamo rinascimentale vedrà gli esordi Galileo Chini, soprattutto con le decorazioni parietali, a Roma vi si assoceranno le citazioni in gotico-fiabesco di Gino Coppedè per l’omonimo quartiere residenziale.

9.1.1. Il Mobile Liberty

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Dalla indiscussa genialità di Carlo Bugatti discende una generazione di ebanisti milanesi. Alla data del successo londinese di Bugatti, nel 1888, Eugenio Quarti apre la sua piccola officina, dopo un apprendistato in Francia e accanto al “maestro”: periodo breve, ma che lascia un influsso fino all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898. Proveniente da una famiglia artigiana di stipettai, Quarti è un esperto ebanista che usa legni pregiati, cura i particolari bronzei e gli intarsi in madreperla e fili di bronzo, che saranno man mano più evidenti e discosti dall’orientalismo bugattiano, verso l’approdo ad uno stile personale, un Liberty italiano prezioso e inconfondibile, tanto che Vittorio Pica gli dedicherà un articolo illustrato sulla rivista Emporium dell’ottobre 1899.

 

A differenza dell’irrequieto spirito “artistico” di Bugatti, che vende i suoi modelli come fossero brevetti (per tutelarsi dalle copie) e, nonostante i tentativi, resta circoscritto ad un mercato artistico-artigianale d’élite, Quarti pur restando legato all’amore per il mestiere, per i materiali e per la perfetta esecuzione, diventa un grande industriale, specializzandosi in grandi commesse di arredi completi. Lo stesso avviene per Carlo Zen e il figlio Pietro che, con un riuscito processo di industrializzazione della loro Fabbrica Italiana Mobili, riescono a fornire produzioni nel nuovo stile modernista, intarsiate e dipinte, diversificate sia per i costi che per gli stili, pur all’interno di modulazioni floreali.

 

Sono molti i pittori e gli scultori che in questo periodo diventano artisti-artigiani e ebanisti-industriali, dando spazio alla pittura e alla decorazione cromatica nelle opere di ebanisteria, come Giacomo Cometti e Alberto Issel.

Quella formata da Ernesto Basile e Vittorio Ducrot è forse l’esperienza più originale nella rivendicazione di “latinità” del nuovo stile. I mobili creati dall’artefice di Villa Igiea per la ditta Ducrot sono vari e duttili, legati alla sua architettura, ma altresì pensati per la produzione in serie, tanto da annoverarlo come il primo industrial designer italiano all’altezza di quelli attivi in situazioni nazionali più avanzate industrialmente. Dalle committenze palermitane dei Florio agli arredi per la Biennale del 1903, al caffè Faraglia di Roma, ai disegni per tappeti, lampade e stoffe, ceramiche, ferri battuti, vetrate e paramenti, Basile conserva uno stile autonomo e inconfondibile, continuamente aggiornato pur nella consapevole aderenza alla cultura siciliana.

Menzione a parte merita la vicenda di Aemilia Ars, società cooperativa nata a Bologna nel 1898, vera e propria “gilda” di artisti, decoratori e artigiani, ispirata a un’ideologia di avanzato rinnovamento sociale, morale ed estetico, ma in grado di mettersi in contatto operativo con industrie, artigiani e laboratori del territorio. Pur nel breve periodo di vita, riescono a creare prodotti armoniosi, calibrati fra reminiscenze del passato e istanze moderniste. Alla sua liquidazione, a inizio 1904, sopravvivrà soltanto la produzione di ricami, presente ancora per decenni nello storico negozio del centro di Bologna.

9.1.2. L’industria ceramica

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Nell’industria ceramica il retaggio dell’alta tradizione artistico-artigianale, i cospicui profitti generati da un mercato estero che supporta la passione dell’antiquariato richiedendo copie fedeli o rifacimenti dei manufatti “storici” (uniti all’alto costo delle nuove tecnologie), giocano un ruolo di deterrente all’innovazione formale. Ma alcune aziende lungimiranti capiscono l’aspirazione degli artisti “nuovi” (primi fra tutti Adolfo De Carolis, Duilio Cambellotti, Arturo Martini e Galileo Chini) di misurarsi con le arti fin qui ritenute minori, ma che abbracciavano in un’unica ricerca la loro concezione estetica e offrivano la possibilità di testare materie e tecniche diverse. Una delle “arti” più frequentate fu la ceramica, per sua natura la più vicina a quella sintesi alchemica cara alla poetica simbolista a cui il Liberty non fu immune (una simile attrazione si manifesta nei confronti del vetro, materia anch’essa fatta di terra, acqua e fuoco). I prodotti ceramici inoltre erano i più vicini all’oggetto d’uso quotidiano, attraverso il quale far penetrare la democratizzazione della bellezza totale, aspirazione anch’essa in prima linea negli scopi dei movimenti dell’Arte Nuova, dalle Arts and Crafts, alla Wiener Werkstätte, fino alla Bauhaus. Anche se in Italia non vi furono veri movimenti-azienda, a parte il breve tentativo di Aemilia Ars, si realizzarono collaborazioni importanti fra alcune fabbriche e i singoli artisti-designer (una visita al mirabile Museo Internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908 a Faenza, sarebbe illuminante).

 

Oltre alla centralità di Faenza (e il contributo donatovi da Domenico Baccarini), “è interessante segnalare una curiosa intersecazione anglo-italiana, realizzatasi a Firenze. È noto come la città toscana fosse meta di pellegrinaggi di intellettuali e artisti di tutta Europa, ma particolarmente inglesi e tedeschi, e dunque vivesse (come peraltro Roma) una condizione di aperto e vasto cosmopolitismo. Negli anni Ottanta il grande ceramista inglese William de Morgan si recò diverso tempo a Firenze per studiare nella fabbrica di Cantagalli (era amico di uno dei dirigenti) la tecnica del lustro ceramico. Un raro albarello [vaso di farmacia] a lustro metallico rosso e a disegno di pavoni, databile alla metà del nono decennio, indica con sicurezza il frutto di questo contatto e degli scambi proficui tra gli Arts and Crafts inglesi e il patrimonio figurativo e tecnico italiano. E allo stesso tempo indica come i prodotti della celeberrima fabbrica, esportati in tutto il mondo, potessero influenzare il nascente gusto Liberty europeo” (Fabio Bensi). In realtà la Manifattura di Ulisse Cantagalli è soprattutto nota per la bravura nell’ “imitare” passati stili gloriosi, ma, come dimostra il vaso “a testa di gatto” del 1902, uno dei pezzi più significativi del periodo, il pur breve passaggio di De Carolis nella ditta ha avuto il suo seguito, così come lo ebbe nella Società Ceramica Artistica Fiorentina e nella Manifattura Ginori di Doccia, che pur nella fusione alla lombarda Richard darà valore al design dell’oggetto, come accadrà in “area Decò” (1923-1930) con la direzione artistica di Gio Ponti.

Esemplare è il caso di Galileo Chini, artista “totale”, che nel 1896 si emancipa in senso modernista gestendo una fabbrica tutta sua, L'Arte della Ceramica: “ispirata prima a una lineare interpretazione del preraffaellismo, poi a un versatile e straordinariamente moderno repertorio di forme e di colori, tra i più alti raggiungimenti del genere in Europa” (F. Bensi). Il fascino subito dall’oriente fin dagli esordi si impone qui nelle rutilanti cromie, nei lustri cangianti delle maioliche e persino nella ricerca, nell’emulazione tecnica del grès cinese, che costituisce una delle novità della sua fabbrica, divenuta nel 1906 la Manifattura Fornaci San Lorenzo.

 

9.1.3. L’arte del ferro battuto

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La moda del Liberty fece rivalutare anche l’antica arte del ferro battuto, dopo la battuta d’arresto del rigore Neoclassico, grazie anche ai ritrovati della tecnica come le macchine a vapore e la saldatura ad ossigeno, che permettevano agli artigiani fabbri di mettere a frutto tutta la loro maestria: cancelli, ringhiere e balconi, suddivisi in spazi ben ritmati e ricchi di linee morbide ispirate della natura vegetale e animale, rianimarono gli spazi architettonici esterni e interni. Ciò favorì un’alta collaborazione fra gli artisti dei vari settori, dall’architetto al decoratore d’interni, alle manifatture di ebanisteria, di lampadari e oggettistica.

 

L’ambiente milanese, influenzato dalle riviste e dalla grafica Jugendstil dette origine a botteghe di alto artigianato come quella creata da Alessandro Mazzucotelli: qui uscirono opere raffinate e ricche di invenzioni formali, che si espressero pienamente nella collaborazione con Giuseppe Sommaruga (architetto allievo di Camillo Boito) in alcune delle più significative realizzazioni di ferro battuto del Liberty, come nel palazzo Castiglioni, al cui arredo contribuì Eugenio Quarti.

 

Gli ideali socialisti umanitari, uniti alla passione didattica, legano Mazzucotelli ad artisti artigiani come Duilio Cambellotti, Giacomo Cometti e Eugenio Quarti, anche lui insegnante alla Scuola Umanitaria per “arti e mestieri” di Milano, istituzione ancora esistente, da cui nacque nel 1922 il famoso ISIA (Istituto Superiore di Industrie Artistiche) di Monza. Queste scuole, basate sul principio dell’educazione e dell'apprendimento di un mestiere come strumenti per l'elevazione sociale dei meno abbienti, costituivano una sorta di accademia di formazione all'artigianato, dei professionisti delle arti decorative. Dalla necessità di esporre al confronto le opere degli allievi dell’Istituto in un apposito spazio (che fu però subito aperto ai contributi artistici internazionali), la Villa Reale di Monza ospitò dal 1923 le Biennali delle arti decorative, che nel 1930 divennero Triennali e costituirono la premessa per l'attuale Triennale di Milano. Tra gli artisti partecipanti alla I Biennale troviamo Giò Ponti, Marcello Nizzoli, Fortunato Depero.

Se a Mazzucotelli spetta un posto di riguardo fra gli artisti del ferro nel periodo Liberty, dobbiamo ricordarne anche l’alta tradizione bolognese e Sante Mingazzi, che si distinse nella produzione di pregevoli pensiline in vetro e ferro battuto (come quella in via D'Azeglio a Bologna). Aderì all’esperienza del gruppo Aemilia Ars, "società protettrice di arti e industrie decorative nella regione emiliana", manifattura artistica che, sull'esempio dell'Arts and Crafts Movement di William Morris, produsse oggetti d'uso quotidiano (pizzi, mobilia, gioielli, tipografia) di raffinata esecuzione.

Alberto Calligaris, assieme ad Alessandro Mazzucotelli, è stato collocato dalla storia ai vertici dell’arte del ferro lavorato a caldo in Europa. Calligaris, che nel 1910 ha ricevuto il primo premio per le arti decorative all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, è il geniale forgiatore di uno stile personale ed eroico, forse più vicino al neo-Luigi XVI (stile più colto e aristocratico, ripreso da quello di Luigi XVI, alleggerito con il colore bianco, che fu detto ironicamente "stile ghirlanda" per l'uso massiccio che ne fece) che al Liberty: “le ghirlande di rose imperversano, ma con una forte presenza del linguaggio formale classico, dai girali alle palmette fino ai bucrani. Dentro l'esuberanza decadente delle rose, questa irruzione della romanità antica crea una dimensione eroica del tutto inedita, che non ricorda nient'altro, se non le atmosfere letterarie di D'Annunzio” (Walter Pagliero).