6. Dialettalità del lessico quotidiano

    Dialetti e altri idiomi d'Italia
    Il mondo dipinto. Quadri cromolitografici al naturale per l’insegnamento

    La straordinaria varietà dialettale che viene dettagliatamente illustrata dalle carte degli atlanti linguistici ha un puntuale riscontro nel senso comune: si ritiene del tutto naturale, infatti, riconoscere la provenienza di un parlante della Penisola anche quando parla in italiano.

     

    Questa riconoscibilità viene attribuita prima di tutto all’andamento intonativo (nel gergo comune, “la cadenza”), un aspetto del comportamento linguistico che nelle diverse regioni tende a essere trasferito direttamente dal dialetto all’italiano, e la cui “misurazione” interessa sempre più gli studiosi. In seconda battuta, la percezione di “dialettalità” dei comportamenti linguistici riguarda gli usi lessicali: quando si pensa a una lingua, infatti, viene in mente soprattutto un vocabolario, e nel caso della situazione italiana questo sentire si collega a una realtà particolarmente variegata. L’italiano lavorare,  per esempio, ha puntuali riscontri “dialettali” nell’area centro-settentrionale (si considerino il romano lavorà, o il milanese laurà), mentre l’area meridionale, con capofila Napoli, propone il tipo faticare, rilevato nel Mezzogiorno estremo da travagliare (sic. travagghiari), che richiama il travajé di Torino (a sua volta concordante con l’uso francese).

     

    Soprattutto nei settori dell’esperienza più legati alla vita quotidiana, il panorama degli usi mostra tuttora uno spiccato radicamento di voci “dialettali”. Tanto che l’italiano stesso pare ancora alla ricerca, proprio in quei settori,  di una “norma” unitaria (domani l’altro o dopodomaniora o adesso? mezzogiorno meno venti o venti a mezzogiorno?), e non di rado succede che le diverse opzioni siano tacitamente accettate come equivalenti, e lasciate tranquillamente a dividersi il campo, cioè il territorio geografico (scalino a Firenze, gradino a Roma).

     

    A questo riguardo è interessante ricordare che alla metà degli anni Cinquanta, a cui risale un’accurata indagine promossa  dallo studioso svizzero Robert Rüegg , la denominazione “in italiano” di oggetti e concetti comuni era sostanzialmente affidata alle parole previste dai diversi dialetti. L’utensile per versare il brodo nel piatto era così chiamato romaiolo a Firenze, mestolo a Milano, cucchiaione a Roma, coppino a Palermo. L’italiano “ufficiale”, infatti, continuava a scontare la propria origine di lingua letteraria ed elevata, che in quanto tale non aveva messo in conto di dover servire per le circostanze più concrete: volendo chiamare “in italiano” le cose di tutti i giorni, dunque, non restava che chiedere soccorso al dialetto, dandogli il più possibile una veste “italiana” (cuppinu > coppino). Proprio questo esempio, a bene vedere, ci dice che per il lessico domestico la situazione al giorno d’oggi non è poi così cambiata…