«Musica che sappia di sperma e di caffè», fatta «di gente viva che abbia il nostro sangue nelle vene». Questa frase, ricavata da una lettera del 1912, sintetizza bene come Pietro Mascagni, iniziatore del verismo nell'opera italiana, concepisse il teatro musicale. Un filone inaugurato trent'anni prima da Cavalleria rusticana, successo che il compositore livornese non riuscì più a eguagliare in seguito. Corna, gelosia, ammazzamenti, ambientazione contemporanea in un Mezzogiorno plebeo di passioni elementari e rozza brutalità , un canto esaltato e intemperante al limite del grido, ne costituiscono gli ingredienti principali: esasperazione violenta, aggressiva, selvaggia, di quelle storie d'amore a fine doloroso già al centro del melodramma romantico.
Il soggetto di Cavalleria è tratto dall'omonima novella di Giovanni Verga uscita nel 1880 nella raccolta Vita dei campi poi trasformata in un dramma teatrale dato nel 1884 a Torino con la giovane Eleonora Duse protagonista. Mascagni, direttore della banda di Cerignola, in Puglia, ne trasferì in musica l'azione con lo scopo di partecipare al concorso per la composizione di un'opera in un atto attraverso il quale l'editore Sonzogno cercava nuovi talenti in grado di rinvigorire l'ormai infiacchito mercato lirico nazionale. Cavalleria ottenne la vittoria e andò in scena a Roma nel 1890 portando subito fama e denaro all'autore.
La storia si svolge in Sicilia. Il contadino Turiddu tradisce l'amante Santuzza con Lola, sua antica fiamma ora maritata con il carrettiere Alfio. Tormentata dalla gelosia, Santuzza si vendica rivelando la tresca ad Alfio, che perciò uccide il rivale. La partitura si apre con Turiddu che intona fuori scena, ancora a sipario chiuso, uno stornello in dialetto siciliano,
tocco di color locale di cui l'opera verista, per sua natura, non può fare a meno, e si chiude con una donna che urla a squarciagola: “Hanno ammazzato compare Turiddu!”. Qui la rinuncia al canto spintona di prepotenza, e inaspettatamente, lo spettatore nella realtà , facendogli quasi dimenticare di trovarsi nella finzione operistica.
Tuttavia a offrire il manifesto teorico del melodramma verista non è Mascagni, ma Ruggero Leoncavallo nei suoi Pagliacci rappresentati a Milano nel 1892, di cui firma pure il libretto. Nel Prologo dell'opera si presenta al proscenio il baritono, portavoce dell'autore che dichiara di aver voluto raffigurare nell'opera uno “squarcio di vita”, ritratti di uomini che si amano, si odiano, spasimano di dolore, inveiscono di rabbia e ridono con cinismo come fanno le persone in carne e ossa: perché sola fonte di questo teatro è il vero.
Pagliacci prendono origine da un caso di cronaca nera avvenuto nel paese calabrese di Montalto Uffugo su cui si era trovato a lavorare il padre del compositore, magistrato. Una troupe di attori girovaghi giunge al paese dove Nedda, moglie del capocomico Canio, ha un amante, Silvio, con cui progetta di fuggire. Anche il gobbo Tonio, membro della compagnia, desidera Nedda, che invece lo disprezza. Lui allora riferisce a Canio del tradimento della moglie. Durante lo spettacolo di questi commedianti, in cui si inscena proprio un adulterio, Canio uccide Nedda e Silvio davanti al pubblico atterrito. I temi del mascheramento e del teatro nel teatro, dello scambio e della commistione tra finzione e realtà , tra farsa e tragedia, fanno di Pagliacci un'opera pianamente partecipe della cultura europea del tempo. Leoncavallo, musicista-intellettuale raffinato, allievo di Carducci all'università , vi combina linguaggio musicale alto, di derivazione wagneriana, con tratti triviali e salottieri tipici del café-chantant e dell'operetta, mentre la musica in stile settecentesco che accompagna la recita dei comici crea un contrasto straniante con l'efferatezza del duplice omicidio compiuto da Canio.
Cavalleria e Pagliacci, oggi spesso programmate in coppia, furono le prime opere a essere registrate integralmente su disco.