Nel 1818 con il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, Leopardi interviene nella polemica fra Classicisti e Romantici suscitata da un articolo pubblicato nel 1816 da Madame de Staël sul periodico letterario Biblioteca Italiana.
I Classicisti prendevano a modello la poesia classica greca e latina ritenendola un inimitabile e irraggiungibile esempio di perfezione, erano a favore di una lingua colta e raffinata basata sulla tradizione e si rivolgevano a un pubblico ristretto, composto da eruditi e letterati; i Romantici privilegiavano l'originalità ed erano interessati agli autori moderni e ai contributi provenienti dall'estero, proponevano una lingua di uso comune e si rivolgevano a un pubblico più ampio, di estrazione borghese.
Madame de Staël – come era comunemente chiamata la scrittrice francese di origini svizzere Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein – nel suo articolo Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni criticava i Classicisti per le loro idee antiquate e ripetitive e li invitava a prendere spunto dalle moderne letterature della Germania e della Francia, nuove e aperte al cambiamento. A rispondere, a nome dei Classicisti, fu Pietro Giordani, che aveva tradotto dal francese l'articolo. I letterati italiani – affermava Giordani – da secoli imitavano i poeti dell'antichità , che avevano raggiunto la perfezione della bellezza e dell'armonia; quindi non avevano bisogno di altri maestri.
Anche Leopardi, nel suo Discorso, si schiera a favore dei Classicisti e intreccia la difesa della poesia antica con la riflessione sull'infelicità umana, già al centro dei suoi pensieri. Gli antichi, come i fanciulli – scrive Leopardi- erano ingenui e semplici e perciò possedevano una sterminata fantasia che è negata all'uomo moderno. Oggi noi soffriamo per la mancanza di questa maraviglia e abbiamo nostalgia di quel tempo lontano, simile all'età della giovinezza, che per questo tanto ci è cara e dilettevole. La poesia può ridestare in noi quelle immagini legate alla fantasia, alla ricordanza, a una natura schietta e inviolata che ci ridestano divinamente gli antichi e che i romantici – preferendo l'orrido e lo strano, la logica e il vero – bestemmiano e rigettano e bandiscono dalla poesia gridando che non siamo più fanciulli. Ed è vero che pur troppo non lo siamo più. Ma di questa commozione e magia abbiamo bisogno per vivere. Perciò il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare.