"La cognizione del dolore": Gonzalo torna a casa

    Letteratura e teatro

    La contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…), a cui si accompagna quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali) è sempre presente nelle opere di Gadda. Anche in questo brano della Cognizione del dolore (parte seconda) dove si narra con intensità lirico-drammatica l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio, non mancano incisi grotteschi e momenti di sferzante ironia.

     

    La scena si svolge nella casa che prima il padre poi, dopo la sua morte, la madre di Gonzalo (chiamata la Signora) ha fatto costruire a prezzo di durissimi sacrifici. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro. La descrizione ha toni altamente lirici. L’alta figura di Gonzalo si staglia minacciosa e cupa (nera, come l’ombra di uno sconosciuto) nel vano della porta; dietro di lui, per contrasto, brillano due stelle, Castore e Polluce (Dioscuri splendidi), che fanno parte della costellazione dei Gemelli e guidano i naviganti verso porti sicuri. Secondo la mitologia Castore e Polluce erano due fratelli che avevano avuto il dono di spartirsi l’immortalità, perciò stavano a turno sulla terra e nel regno dei morti. Il loro rapporto perciò non era mai stato spezzato (fraternità salva), mentre la morte aveva distrutto quello di Gonzalo con l’amatissimo fratello (presenza così fulgida, così pura). Anche la madre soffre per la perdita del figlio, ma i due non riescono a condivide questo dolore: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine:

     

    L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.

    Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.

     

    Gadda si sofferma a descrivere la vecchia madre con toni tristi e accorati: le mani intorpidite non riescono a far presa (prendere) e solo con grande difficoltà riesce ad accendere il lume a petrolio, che in verità (invero – voce letteraria) non aggiunte molta luce (dimolto – voce familiare toscana); è stanca, rischia di cadere, trema per il freddo (abbrividendo – verbo di uso non comune):

     

    Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, alfine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto dimolto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.

     

    La donna, però, si impegna per preparare la cena al figlio: deve dimostrargli che la villa è facile da gestire anche senza una domestica (fante – voce arcaica) e impedirgli di andare in bestia (animalava), di deridere (scorbacchiato – verbo di uso non comune) e di maledire quella casa a cui lei invece è molto legata. Ed è proprio parlando di questo legame che il tono del racconto, da lirico, assume tratti aspramente ironici. La madre, da giovane, ha costruito la villa per orgoglio, per ottenere un trionfo serpentesco sulle rivali discendenti dei Celti (keltikesi) che ritenevano miserevole la sua famiglia (spelacchiatissimi Pirobutirro) ma soprattutto per prendersi una rivincita (alla facciazza) nei confronti dei parenti (pseudo-cognate, pseudo-nipoti). E quell’orgoglio, cresciuto nel tempo, era diventato ebbrezza, onnipotenza raggiante; l’idea del possesso l’aveva ubriacata come un cognac di fuoco, facendole superare e respingere (acculare) ogni disagio, che fosse generato dalle condizioni misere in cui aveva costretto a vivere i figli (sdrucita maglia de’ suoi bimbi), oppure dal suono delle campane, o pesci (tenca – voce lombarda) o dal timore della morte:

     

    Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl) […].

    La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).

    E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido.

    Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.

     

     

    Al termine della digressione, Gadda ritorna a descrivere la madre di Gonzalo che cerca qualcosa da cucinare, ma invano: la credenza è vuota, non c’è neppure un uovo (ovo – voce toscana) da mettere in tavola! La nuova digressione, che riguarda le galline di Giuseppe, il contadino che lavora per i Pirobutirro, è espressa in toni grotteschi, enfatizzati dall’uso di vocaboli ricercati (stentoreo, inadempienza, reminiscenza, morosità genetica), da espressioni iperboliche (gloriosa estromissione) e citazioni latine (gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse: che la gallina si trasformasse in gallo, il gallo in gallina) . Queste grasse galline (stentoreo deretano) raramente producevano uova (gloriosa estromissione), perciò Gonzalo aveva accusato il gallo di essere inadatto alla riproduzione (morosità genetica) e le galline di essere lesbiche o troie; si era calmato solo grazie al vago ricordo (reminiscenza) un prodigio narrato dallo scrittore latino Livio che riguardava la trasformazione di un gallo in gallina, e aveva brindato alla salute del gallo invertito (bardassa – voce arcaica, di incerta etimologia):

     

     […] in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano íl turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa […]

     

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