Siamo nel Cocito, un immenso lago ghiacciato posto nella seconda e nella terza zona del nono cerchio, dove vengono puniti i traditori della patria, della parte politica e degli ospiti. Il canto XXXIII inizia con l’immagine del Conte Ugolino mentre solleva la bocca dalla testa dell’Arcivescovo Ruggeri, la pulisce ai capelli e si rivolge a Dante per dirgli che racconterà la sua storia, così dolorosa e disperata da straziargli il cuore solo a pensarla.
Come si legge nelle ultime terzine del canto precedente (XXXII), Dante era rimasto colpito da dannato intento a rodere con ferocia la nuca di un altro.
Per conoscere la ragione di tanto scempio, aveva chiesto al peccatore perché si comportasse in quel modo, promettendogli di rendere noti nel mondo i motivi del suo odio. Per Ugolino ricordare il passato è straziante, ma il desiderio coprire d’infamia il traditore che egli sta divorando è così grande da spingerlo a parlare e piangere nello stesso momento. L’espressione parlare e lagrimar (si tratta di uno zeugma, dal greco ζεuγμα zeugma, «legame, unione», figura retorica che collega un solo verbo a due o più elementi della frase che invece richiederebbero ognuno rispettivamente un verbo specifico) è la stessa che Francesca da Rimini usa nel canto V: ma Francesca piange sulla felicità perduta, il Conte sull’orrore della sua tragedia.
Ugolino della Gherardesca, di nobile e antica famiglia ghibellina, era conte di Donoratico e podestà di Pisa. Dante lo situa fra i traditori politici perché si era accordato con i guelfi allo scopo di proteggere alcuni suoi possedimenti in Sardegna. Quando Pisa fu conquistata di nuovo dai ghibellini al comando dell’Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, il Conte venne catturato con i due figli e i due nipoti (di cui uno adolescente) e rinchiuso nella torre della Muda, così chiamata perché vi venivano rinchiuse le aquile allevate dal comune di Pisa durante il periodo della muta delle penne. La torre fu poi sbarrata e i prigionieri morirono di fame. Secondo Dante, l’Arcivescovo avrebbe fatto rientrare Ugolino a Pisa con l’inganno, promettendo una riconciliazione. Per rendere più drammatica la vicenda, il poeta immagina che i quattro prigionieri siano tutti figli del Conte e tutti poco più che ragazzi.
È uno dei canti più drammatici della Commedia, soprattutto per il verso «poscia più che l’orror potè il digiuno» che, con il suo significato ambiguo, lascia spazio a domande inquietanti e senza risposta.