Lazio: testi

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    da Trilussa (pseudonimo-anagramma di Carlo Alberto Salustri), Li complimenti (tratto da L'italiano delle regioni, a cura di Francesco Bruni, Torino, Utet, vol. II, p. 599):

     

    Me scuserà che sto così sciattata,

    signora mia, nun aspettavo gente:

    lei tutta scicche, nu' glie dico gnente...

    Come sta bene! Come s'è ingrassata!...

     

    Chi? Caterina. Sta da mia cognata...

    Lugrezzia? È andata a Messa, indegnamente...

    Quando vengon'a casa, chi le sente?!

    A sapello, l'avrebbero aspettata!

     

    Se ne va? Me saluti la sorella...

    Grazie. Sarà servita. Sissignora,

    cercherò de venirce. Arivedella.

     

    Oh! s'è rotta le cianche, si' ammaita!

    Caterina, Lugrezzia, uscite fòra,

    ché 'sta scoccia-stivali se n'è ita!

     

    da A. Moravia, La Ciociara, Milano, Bompiani, 1957, p. 34-36

     

    Ma lei insistette: «Tutti dicono che i tedeschi sono cattivi... ma che hanno fatto, mamma?». Allora io risposi: «Hanno fatto che invece di stare al paese loro, sono venuti qui, a scocciarci a noi... per questo la gente ce li ha sulle corna». [...]

    Io mi tenevo Rosetta abbracciata, con la testa contro il mio petto, e ad un tratto, forse perché ci avevo la testa contro il pett, mi ricordai di quando era piccola e io l'allattavo, e avevo il petto gonfio di latte, come sempre noialtre ciociare che siamo conosciute come le meglio balie del Lazio e lei poppava tutto quel latte e diventava più bella ogni giorno ed era proprio un fiore di bellezza che la gente per la strada si fermava a guardarla e mi dissi ad un tratto che sarebbe stato meglio che non fosse mai nata, se doveva poi vivere in un mondo come questo, tra gli affanni, i pericoli e la paura.

     

    Da C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, Milano, Garzanti, 1991 [1964], p. 4

     

    Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che poteva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d'agnello d'Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s'intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d'uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo unmisterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l'interessato: «il dottor Ingravallo me l'aveva pur detto.» Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di cause convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuoi dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra maro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!... Già. Sì me chiammeno a me... può sta ssicure ch'è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà... » diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.

     

    Da C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, Milano, Garzanti, 1991 [1964], p. 31

     

    «Nun me sento, grazie, » diceva tristemente a Pompeo, che gli propose di romper l'inquietudine con un par de pagnottelle imbottite. «Non ne ho voglia, non è il momento.» «Come ve pare, commendatore. In ogni caso, quanno che volete, er Maccheronaro, qui a via der Gesù, ce sta apposta. Ce conosce tutti, che semo boni clienti. Er rosbiffe ar sangue è la specialità de Pepp'.» La sora Manuela, spiacciato sul tavolo di don Ciccio quell'orribile e interminabile garbuglio della firma reverita sua, Manuella Petachoni, attraversando la stanzaccia di attesa volle accomiatarsi dall'imbacuccato: e salutò giovialmente, popolana e canora come non mai:«Arrivedella, sor commendató...» Tutti lo affisarono.«Se facci coraggio che nun è gnente... È più presto fatto che detto.» E uscì pe pijà er PV-1 tutta de prescia, smovenno er culo come una quaja e ticchettando in difficile equilibrio sui tacchi degli scarpini boni che parevano du trampoli, come una scrofona su queli zoccoletti che cianno.«Co tutte ste buggere, oggi, manco ciavrà fantasia de magnà li carciofini... Manco un zeppo se magna, povero sor Filippo... A Santo Stefano der Cacco avemio da capità. Brutti posti!»

     

    da A. Celestini, La pecora nera, Torino, Einaudi, 2010, pp. 28-29

     

    Giovedì 15 gennaio 1959 entra la manicomio...

    Entro al manicomio, cari signori. Me mettono al padiglione dei criminali.

    Perché il Santa Maria della Pietà è stato l'unico manicomio in Italia che ha avuto un reparto giudiziario. Padiglione 18. Era il reparto giudiziario. Era come un carcere. Costruito proprio, eh. No adattato. Costruito proprio come carcere perché si sapeva che lì ci dovevano andare i criminali giudiziari, no?

    Me misero là dentro. Figuriamoci, io me ne volevo anda'. E dico «ma che è? Io sono venuto pe' fa' l'infermiere, qui faccio il custode, il carceriere, il secondino. No, no, io me ne vado». La suora m'ha preso subito a benvolere, dice «ma no, su... qua... là. Adesso t'aiutiamo noi». Comandavano tutto loro. «T'aiutiamo noi?» «Te mandamo a un padiglione dove se fa un po' l'infermiere...»

    E va be', me mandano a 'n artro padiglione dove se fa un po' l'infermiere. Io volevo ugualmente – insoddisfatto, era un marasma, era un disastro – volevo anda' via.

     

    da N. Ammaniti, Fango, Milano, Modadori 1996, pp. 234-35

     

    Dalla finestra chiusa con dei fogli di plastica trasparente si vedeva sfocato la Prenestina, le macchine incolonnate, i capannoni delle industrie dei cessi, le gru d'acciaio, gli orti, le costruzioni basse e il cielo. Azzurrissimo. Freddo. Senza neanche una nuvola.

    Quel cimiciaio orientale apparteneva ad Antonello.

    Antonello il fricchettone.

    Albertino a quello là lo schifava per principio. A pelle. Infatti non lo conosceva proprio a quel tosico. Non sapeva come nasceva e nemmeno perché il principale ci faceva i business.

    Comunque se Ignazio Petroni, detto il Giaguaro, lo utilizzava voleva dire che sotto i panni di un figlio dei fiori batteva il cuore di un uomo fidato.

    Questo è quanto doveva sapere.

    E a lui doveva bastare.

    Cero è che ad Albertino non piaceva proprio quello lì.

    Finalmente oltre la porta lo scroscio dello sciacquone.

    Ce l'abbiamo fatta! pensò sollevato Albertino.

    Gettò a terra la sigaretta e la spense con la punta dello stivale fottendosene del tappeto. Si rimise in piedi tirandosi su i jeans.

    Poco dopo la porta si aprì e ne uscì fuori il fricchettone.

    Stava malmesso.

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