Il poeta e la storia: "Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie"

    Letteratura e teatro

    Nel maggio del 1820 il poeta e drammaturgo francese Jean Joachin Victor Chauvet pubblica un articolo sulla tragedia di Manzoni Il conte di Carmagnola in cui da una parte dichiara di apprezzare l’opera e dall’altra la critica perché non rispetta le unità aristoteliche di tempo e di luogo, secondo le quali le vicende narrate dovevano svolgersi in un unico giorno e in un unico ambiente.

     

    Manzoni gli risponde dopo due mesi, scrivendo in francese una lettera che, dopo molte revisioni, verrà pubblicata nel 1823 a Parigi con il titolo Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, in appendice all’Adelchi e al Conte di Carmagnola.

     

    La lettera contiene una riflessione sulla poesia come possibile strumento di conoscenza. Secondo Manzoni, la storia dell'umanità è la manifestazione della volontà di Dio nel corso dei secoli, quindi merita grande attenzione. I documenti storici tramandano testimonianze che riguardano la vita e le imprese di illustri personaggi, ma non sono in grado di metterci in contatto la loro “anima”, di raccontare i sentimenti, i pensieri più intimi che hanno guidato le loro azioni.

     

    Il poeta non deve inventare i fatti perché la storia offre già un grande numero di eventi importanti e significativi, degni di essere raccontati; al poeta spetta il compito di utilizzare l’immaginazione per ricostruire, interpretare e mostrare emozioni, paure, speranze, quegli aspetti della realtà che rimangono invisibili agli occhi dello storico e che sono invece essenziali per comprendere come la vita di ogni persona e dell’intera comunità umana siano guidate da un piano provvidenziale di cui spesso non si riesce a comprendere il senso e la direzione.

     

    Manzoni affida quindi alla poesia una missione di carattere etico: interpretare i fatti storici nel loro significato profondo, “dal di dentro”, facendo emergere i momenti in cui il destino e le scelte individuali si intrecciano misteriosamente con il disegno divino:

     

    Ma, si dirà forse, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché infine che cosa ci dà la storia? degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che dall'esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia.[…] Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo.[1]

     

    Questa riflessione sulla poesia porta Manzoni concepire un modo nuovo di scrivere e rappresentare tragedia, che consiste nell’eliminare le unità di tempo e di luogo tipiche del teatro classico. Nella lettera a Chauvet spiega le ragioni della sua scelta.

     

    In primo luogo, se il compito della tragedia è mettere in scena i fatti della storia, questi non si svolgono certo in un giorno, come artificiosamente esige l’unità di tempo aristotelica; la tragedia, inoltre, anche se rappresenta le passioni umane, deve evitare che lo spettatore ne sia coinvolto a tal punto da immedesimarsi nei personaggi, perdendo la capacità di osservarli dall’esterno. Manzoni vuole che lo spettatore “prenda le distanze”, si rapporti in modo critico alle vicende, sia consapevole di essere testimone di un evento su cui è chiamato a ragionare e a dare un giudizio, come sulla scena fa il coro.

     

    Per riportare lo spettatore alla lucidità che gli viene richiesta dal suo ruolo di osservatore critico, è necessario che la tensione emotiva venga in qualche modo “disturbata”. Manzoni quindi decide di interrompe l'azione drammatica attraverso i cambiamenti di scena, per impedire un eccessivo coinvolgimento dello spettatore ed anche per rappresentare lo svolgersi naturale delle vicende nel tempo:

     

    Bisogna infine che l'azione sia una: ma esiste realmente tale unità nella natura dei fatti storici? Non vi esiste in maniera assoluta, perché nel mondo morale, come nel mondo fisico, ogni esistenza è a contatto con altre, si complica con altre esistenze; ma vi esiste in maniera approssimativa; che tuttavia è sufficiente allo scopo che il poeta si propone, e gli serve come punto di riferimento nel suo lavoro. Che cosa fa dunque il poeta? Trasceglie, nella storia, alcuni avvenimenti interessanti e drammatici, i quali siano così profondamente legati l'uno all'altro, e lo siano così debolmente con ciò che li ha preceduti e seguiti, che la mente, vivamente colpita dal loro reciproco rapporto […] vivamente si applichi a cogliere tutta l’estensione, tutta la profondità del rapporto che li unisce, a individuarne il più nettamente possibile le leggi di causa e di effetto che li governano.

     

    Non cercando di sommuovere nelle anime calme le tempeste delle passioni, il poeta esercita il suo massimo potere. Facendoci discendere in esse, egli ci smarrisce e rattrista.

     

    Facendoci assistere ad avvenimenti che non ci interessano come attori, nei quali noi non siamo che testimoni, può aiutarci a prendere l'abitudine di fissare il nostro pensiero su quelle idee calme e grandi che si cancellano e si dileguano addirittura nell’urto delle realtà quotidiane della vita, e che, se fossero più presenti, salverebbero sicuramente la nostra salvezza e la nostra dignità.



    [1]    A. Manzoni, Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, traduzione italiana di E. Bonora, in A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di E. Bonora, Torino, Loescher, 1980

     

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