Don Rodrigo è un signorotto potente e meschino che, per puro capriccio, sconvolge la vita di persone innocenti e indifese. Di lui Manzoni non ci dà un ritratto diretto: nel primo capitolo lo conosciamo attraverso le parole Don Abbondio che in preda al terrore, racconta a Perpetua l'incontro con i bravi:
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo!
Quando, nel capitolo V il signorotto entra scena, Manzoni non descrive la persona ma il palazzotto da cui esercita il suo potere tirannico. Don Rodrigo, sembra dirci lo scrittore, non ha valore in sé, esiste solo per la violenza dei suoi bravi, per le armi, per la prepotenza cui si circonda. Don Rodrigo incarna il potere cieco, sinistro e ridicolo insieme, come quel castello solitario, paragonato da Manzoni a una bicocca, termine ambiguo che sta a indicare una roccaforte ma anche un luogo misero e cadente, una catapecchia:
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Manzoni descrive Don Rodrigo solo quando è vicino alla morte, attraverso gli occhi di Renzo. Il giovane, in cerca di Lucia, giunge al lazzeretto, dove incontra Fra Cristoforo che lo conduce in una misera capanna. Lì, in mezzo ad altri infermi, Renzo ne scorge uno involtato in un lenzuolo, con una cappa signorile indosso, capisce che si tratta di Don Rodrigo. Ma il signorotto non esiste più, c'è solo un povero infelice, malato e dolente (cap.XXXV):
Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.