"La quiete dopo la tempesta"

    Letteratura e teatro

    Leopardi compone questa poesia nel settembre del 1829. Articolata in quattro strofe, ha per tema la felicità, intesa come momento di quiete nelle tempeste della vita, come spazio sereno dato all’illusione; un sollievo destinato a finire per lasciare spazio a nuovi dolori e al disincanto. Pochi giorni dopo La quiete dopo la tempesta, Leopardi scriverà Il sabato del villaggio.

     

     

    Passata è la tempesta:
    Odo augelli far festa, e la gallina,
    Tornata in su la via,
    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
    Rompe là da ponente, alla montagna;
    Sgombrasi la campagna,
    E chiaro nella valle il fiume appare.
    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
    Risorge il romorio
    Torna il lavoro usato.
    L’artigiano a mirar l’umido cielo,
    Con l’opra in man, cantando,
    Fassi in su l’uscio; a prova
    Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
    Della novella piova;
    E l’erbaiuol rinnova
    Di sentiero in sentiero
    Il grido giornaliero.
    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
    Apre terrazzi e logge la famiglia:
    E, dalla via corrente, odi lontano
    Tintinnio di sonagli; il carro stride
    Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

     

     

    Nella prima strofa (vv. 1-24) il poeta descrive la vita che riprende il suo corso dopo la fine di un temporale (tempesta): gli animali si rasserenano, la montagna, i campi e il fiume s’illuminano, il sole torna a risplendere, l’artigiano si affaccia sull’uscio della bottega e canta, una ragazza (la femminetta) si affretta a raccogliere l’acqua appena caduta, il venditore di ortaggi (l’erbaiuol) riprende il suo cammino. Per descrivere la serenità ritrovata dopo la tempesta, Leopardi fa ricorso a suoni intensi (tintinnio di sonagli, il carro stride) e a immagini luminose (Ecco il Sol che ritorna / ecco sorride, Apre i balconi / apre terrazzi e logge la famiglia), utilizza una sintassi piana e numerosi enjambement (gallina / tornata, sereno / rompe, lato / risorge) che danno ai versi una grande musicalità.

     

     

    Si rallegra ogni core.
    Sì dolce, sì gradita
    Quand’è, com’or, la vita?
    Quando con tanto amore
    L’uomo a’ suoi studi intende?
    O torna all’opre? o cosa nova imprende?
    Quando de’ mali suoi men si ricorda?
    Piacer figlio d’affanno;
    Gioia vana, ch’è frutto
    Del passato timore, onde si scosse
    E paventò la morte
    Chi la vita abborria;
    Onde in lungo tormento,
    Fredde, tacite, smorte,
    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
    Mossi alle nostre offese
    Folgori, nembi e vento.

     

     

    Tutti sono felici dopo la tempesta (Si rallegra ogni core). Ma, si chiede il poeta nella seconda strofa, in quali momenti della vita l’uomo è altrettanto felice? Quando si dedica allo studio (a’ suoi studi intende)? Quando riprende il lavoro (torna all’opre) o ne inizia uno nuovo (cosa nova imprende)? Oppure quando riesce a dimenticare almeno in parte i suoi mali? E la conclusione a cui arriva, portata a sintesi in un solo verso (Piacer figlio d’affanno), è drammatica: la felicità non esiste in sé ma deriva da un evento ormai passato che ci ha fatto temere la morte (passato timor); in quel momento anche le persone che detestano la vita (chi la vita aborria) provano terrore per la fine imminente (paventò) e quando la paura cessa sentono un sollievo a cui danno il nome di piacere. La felicità quindi non è presenza di bene ma solo assenza di male.

     

     

    O natura cortese,
    Son questi i doni tuoi,
    Questi i diletti sono
    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
    È diletto fra noi.
    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
    Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
    Che per mostro e miracolo talvolta
    Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
    Prole cara agli eterni! assai felice
    Se respirar ti lice
    D’alcun dolor: beata
    Se te d’ogni dolor morte risana

     

     

    Nell’ultima strofa il poeta si rivolge alla natura definendola, in modo ironico, gentile e generosa (cortese) perché dona agli uomini dolore in grande abbondanza (a larga mano) e di conseguenza procura loro altrettanto piacere quando, per breve tempo, fa cessare il tormento. Questa è la triste sorte riservata dagli dei al genere umano che Leopardi, ancora con pungente ironia, chiama Umana / prole cara agli eterni.

    Nelle due strofe finali, dove la descrizione del paesaggio ha lasciato il posto alla riflessione filosofica, anche la sintassi è divenuta più complessa: i versi 32-41 (Piacer figlio d’affanno; / gioia vana, ch’è frutto / del passato timore, onde si scosse / e paventò la morte / chi la vita abborria; / onde in lungo tormento, / fredde, tacite, smorte, / sudâr le genti e palpitâr, vedendo / mossi alle nostre offese / folgori, nembi e vento) ad esempio, formano un unico, lungo periodo ipotattico[1].



    [1] L'ipotassi (dal greco hypotaxis, soggezione, subordinazione) è una costruzione sintattica nella quale una o più proposizioni sono subordinate a una principale.

     

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