6. L'Ottocento

Arti
Il "Rigoletto" in una delle figurine Liebig dedicate a Giuseppe Verdi.

Nell’Italia del dopo Rossini l’opera seria tende decisamente a prevalere sull’opera buffa, come mostrano i cataloghi di Vincenzo Bellini (Catania, 1810 – Puteaux, Parigi, 1835), Gaetano Donizetti (Bergamo, 1797-1848), Giuseppe Verdi (Busseto, Parma, 1813 – Milano, 1901) nei cui libretti penetrano soggetti romantici ricavati da Walter Scott, Byron, Schiller, Victor Hugo. Tema dominante è l’esaltazione del sentimento amoroso di un soprano e di un tenore destinati tuttavia alla tragedia perché un baritono vi si mette in mezzo.

Artefice di “melodie lunghe, lunghe, lunghe” (così le descriveva Verdi), eteree, affusolate, sospese su un'orchestra quasi incorporea, Bellini aveva l’ambizione di affermarsi come il primo operista della sua epoca. E ci stava riuscendo, grazie anche al prospero sodalizio con il librettista Felice Romani, se la morte non l’avesse colto troppo giovane dopo il debutto a Parigi dei Puritani su versi del conte Carlo Pepoli, patriota in fuga dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 in Italia.

Donizetti, compositore talmente prolifico da venir malevolmente soprannominato “Dozzinetti”, importa nelle sue partiture la densità sinfonica dello stile viennese di Haydn, Mozart, Beethoven insieme alla esperienze più recenti dell’opera francese. Godette di vasto successo europeo che gli valse la nomina a compositore di corte a Vienna, posto che già era stato di Mozart. Il suo titolo più celebre è Lucia di Lammermoor (Napoli, 1835). Racconta di una fanciulla che perde il senno perché costretta per ragioni politiche a sposare chi non ama. Momento cruciale è la scena della pazzia, nella quale il delirio della protagonista si manifesta in un canto convulso e funambolico che sembra voler oltrepassare i limiti delle possibilità umane. L'autografo napoletano prescrive l'armonica a vetro come accompagnamento di quest’ultima allucinata apparizione di Lucia, ma una tradizione radicata la sostituisce nelle esecuzioni correnti con il flauto.

Verdi, uomo di teatro dalla personalità poderosa, è per mezzo secolo dominatore assoluto delle scene italiane; e anche nel mondo pochissimi possono rivaleggiare con lui, tanto che quando l’Egitto decide di commissionare un’opera che celebri l’inaugurazione del canale di Suez, è lui ad essere prescelto. Nasce così Aida (1871), opera monumentale ambientata  al tempo dei faraoni.

La fortuna internazionale di Verdi inizia con Nabucco, dato alla Scala nel 1842: il coro “Va’ pensiero” diventa emblema del Risorgimento e Verdi gloria dell’Italia unita al pari di Manzoni – la cui fama, però, a differenza di quella del musicista, non varcherà mai i confini nazionali. Secondo la concezione drammaturgica verdiana il compositore è responsabile in tutto della riuscita dell’opera, su cui deve vigilare: dalla genesi dei versi (si sa quanto il musicista tiranneggiasse i suoi librettisti finché non gli fornivano un testo a suo parere soddisfacente) alla messinscena. Da metà secolo Verdi comincia a strutturare i propri melodrammi in grandi campate architettoniche misurate sull’ampiezza di un intero atto o su gran parte di esso. Ne è un esempio La traviata (Venezia, 1853), storia di una prostituta contemporanea che tuttavia, per ragioni di opportunità, nei primi allestimenti dovette essere retrodatata al Settecento.

I princìpi fondanti del teatro verdiano sono la raffigurazione realistica dell’uomo e delle sue passioni (quel che il compositore definiva “inventare il vero”) e la brevità. Conta, cioè, la situazione, l’effetto drammatico immediato prodotto dalla musica; il cuore dell’azione va raggiunto presto, senza troppo perdersi in versificazioni artificiose difficilmente afferrabili dall’uditorio e facendo balzare in evidenza, al momento opportuno, una breve frase, un’esclamazione, una sola parola (la cosiddetta “parola scenica”) che, stagliandosi perentoria e monolitica su tutto il resto, chiarisca immediatamente allo spettatore il senso della scena alla quale sta assistendo.

Verdi apprende dall’amato Shakespeare e da Hugo che il triviale, il grottesco, il comico possono ben convivere con il tragico, e anzi farlo risaltare per contrasto come accade in Macbeth (Firenze, 1847; revisione Parigi, 1865) e Rigoletto (Venezia, 1851), soggetto che gli dette parecchi problemi con la censura a causa del protagonista deforme, buffone di corte che perdipiù progetta l'assassinio del proprio signore, un duca libertino, colpevole di avergli disonorato la figlia.

A ottant'anni Verdi conclude la carriera con Falstaff (Milano, 1893), commedia disincantata il cui insegnamento è che la vita non va presa troppo sul serio. “Tutto nel mondo è burla”, vi si canta infatti alla fine.