Fra i temi fondamentali della poetica di D’Annunzio c’è la fusione totale – panica[1] – con la natura; Sera fiesolana ne è un esempio significativo.
La poesia, che fa parte della raccolta Alcyone, è ambientata a Fiesole, un paese in collina vicino a Firenze, in una bella sera di giugno. La primavera sta per cedere il posto all’estate (commiato lacrimoso) e la natura si trasforma: sui pini spuntano nuovi germogli, simili a dita che giocano col vento (novelli rosei diti); il grano non è biondo ancora/ e non è verde; il fieno, seccando, cambia colore (trascolora).
Il poeta osserva quel magnifico paesaggio insieme alla donna amata e si rivolge a lei augurandole che le sue parole possano darle ristoro (fresche ti sien) come se fossero suoni nati dalla natura in primavera (come il fruscio delle foglie) e non dalle labbra dell’uomo.
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Lo sguardo del poeta scorre sulla campagna. È sera e il contadino, in silenzio, stando in piedi sulla scala che diventa sempre più scura con lo scendere della sera (l’alta scala che s’annera) coglie con calma e attenzione (s’attarda a l’opra lenta) le foglie del gelso. La luna, come una bella donna (Luna) sta per apparire all’orizzonte che diventa azzurro (prossima alle soglie/cerule) al tramonto del sole e diffonde intorno un sottile chiarore pieno (un velo) che avvolge nell’incanto il poeta e la sua amata (ove il nostro sogno si giace); insieme a loro, anche la campagna attende il sorgere della luna (senza vederla) per trarre riposo e refrigerio (beva) dalla quiete notturna (sperata pace).
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Nella prima Laude alla Sera (anche lei personificata come la Luna), per descrivere la donna-astro morbidamente avvolta nel suo chiarore (viso di perla), il poeta utilizza parole che rimandano all’acqua, trasparente, fluida e cangiante: la luna ha grandi umidi occhi che raccolgono la rugiada (acqua) del cielo.
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Anche nella seconda strofa troviamo immagini legate all’acqua (come la pioggia che bruiva, commiato lacrimoso) e un rimando al Cantico di Francesco (fratelli olivi): un inno alla natura dolce e serena, che infonde pace e santità alle colline cullate dal mormorio (bruiva) della pioggia:
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Nella seconda Laude le emozioni nascono dagli odori: la Sera ha vesti profumate (aulenti) e una cintura, simile al ramo del salice (come il salce) con cui si legano i profumati covoni di fieno:
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Il poeta ascolta la voce della natura che gli svela i suoi segreti e li racconta alla donna. Il fiume Arno e le sue fonti gli indicano luoghi meravigliosi dove l’amore regna sovrano (reami/d’amor), le colline gli raccontano perché abbiano linee ricurve (s’incurvino), simili a labbra che custodiscono un segreto (come labbra che un divieto/chiuda); ed è proprio il desiderio di parlare a renderle straordinariamente belle (oltre ogni uman desire) e il loro silenzio a renderle capaci di consolare (consolatrici) e di destare in chi le ammira un desiderio sempre più forte (d’amor più forte).
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitar le prime stelle!
Nell’ultima Laude la Sera è descritta nel momento in cui i colori limpidi svaniscono (pura morte) per dare il posto alle prime stelle. Una Sera piena di fascino, simile a una bella donna misteriosa e sensuale (attesa, palpitar).
La poesia si articola in tre strofe di quattordici versi alternate con altre tre di tre versi; le tre più lunghe sono dirette alla donna (ti sien; ti sien; ti dirò), quelle più brevi alla Sera, ed iniziano sempre con l’espressione Laudata sii, la stessa usata da San Francesco nel Cantico delle creature. La donna e la natura diventano tutt’uno per il poeta: parte del creato la prima, con tratti umani la seconda (viso di perla, vesti aulenti, la tua pura morte).
D’Annunzio trasgredisce a piene mani le regole tradizionali della versificazione. La lunghezza del verso varia, la rima non è collocata secondo schemi ricorrenti, non viene rispettata la corrispondenza fra sintassi e verso: i numerosi enjambement (soglie/cerule, fonti/eterne, divieto/chiuda, tace/l’acqua, foglie/del gelso). Questa “trasgressione”, a cui si unisce l’uso di sinestesie (fresche/fruscio), allitterazioni e onomatopee (sera, sien, fruscio, fan, foglie), anafore (Laudata, o Sera) non è puro esercizio stilistico ma obbedisce all’intento di conferire suggestivi effetti musicali.
[1] Pan è il dio greco mezzo uomo e mezzo capra che incarna la potenza della natura, la sua irrefrenabile forza vitale