D’Annunzio scrive Stabat nuda aestas – che fa parte della raccolta Alcyone – nell’estate del 1902. Protagonista della poesia è una misteriosa figura femminile, simbolo dell’estate, che – indistinta e inafferrabile – attraversa veloce la pineta e, passando per un bosco di ulivi, giunge fino al mare:
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallà dio trasvolare
senza suono. Più lungi nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò nei sui capegli.
Immensa apparve, immensa nudità .
Di questa figura, più dea che donna, vengono descritti solo i dettagli: il piede piccolo e agile (piè stretto), la schiena sinuosa (falcata), i capelli simili alla criniera del leone (capei fulvi), il corpo nudo (nudità ). La creatura misteriosa si muove veloce in mezzo alla calda aria estiva (estuava l’aere), simile a una fiamma bianca (quasi bianca vampa effusa), sfiorando appena (scorrere) gli aghi di pino seccati dal sole (arsi), con i capelli che volano via leggeri (trasvolare) tra le fronde argentate degli ulivi sacri a Pallade Atena (argenteo palladio).
Al suo passaggio la natura ha come un sussulto: le cicale tacciono, l’acqua dei ruscelli emette un suono più rauco (più rochi), la resina dei pini geme scorrendo copiosa lungo i tronchi, il serpente (colubro) esce dalla tana. Il poeta, affascinato, la raggiunge nell’oliveta e unisce la sua voce a quella dell’allodola che la chiama per nome. Giunta in mezzo agli oleandri (leandri), la bella creatura si volge a guardare l’uomo che la insegue, poi entra in mezzo ai giunchi di palude (falasco) simili a grano maturo (bronzea messe) e questi si richiudono intorno a lei con rumori secchi, simili a grida (strepitoso). Sempre correndo, l’apparizione misteriosa giunge sulla riva del mare e cade, incespicando con il piede (torse in fallo) nelle alghe seccate sulla spiaggia (paglia marina). E quando la brezza di ponente (il ponente) solleva la schiuma delle onde per intrecciarla ai suoi capelli, la splendida figura si mostra in tutta la sua meravigliosa, straordinaria nudità (immensa nudità ).
Questo apparire, nascondersi, offrirsi e negarsi rappresenta l’amore come erotismo, come reciproca seduzione che sempre si gioca fra maschio e femmina. Su questo stesso tema, nell’estate del 1902 D’Annunzio scrive anche la poesia intitolata Versilia. Protagonista è la ninfa dei boschi che prende il nome dal luogo dove vive, la riviera toscana chiamata Versilia. La creatura divina esce all’improvviso dal tronco di pino dove il poeta (uomo dagli occhi glauchi) sta appoggiato mentre mangia delle pesche (persica dolce) e, in cambio dei frutti, gli promette il suo amore e una buona caccia.