"Fiabe italiane"

    Letteratura e teatro

    Il titolo completo dell'opera, che ne chiarisce bene il contenuto, è: Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino. Sono 200 fiabe provenienti da tutte le regioni d'Italia che Calvino raccoglie e trascrive in lingua italiana.

     

    Nell'Introduzione all'edizione del 1956, l'autore illustra il significato delle fiabe e le particolari caratteristiche di quelle italiane, i motivi che l'hanno spinto intraprendere questo lungo lavoro e i criteri che, sulle orme dei fratelli Grimm, ha utilizzato per scegliere e trascrivere i testi.

     

    I Grimm – scrive Calvino – dettero inizio al metodo di trascrizione delle fiabe dalla bocca del popolo, ma non furono proprio scientifici, almeno secondo il canone dei nostri giorni che prevede scrupolosa fedeltà stenografica al dettato dialettale del narratore orale. I fratelli Grimm, infatti, sulle pagine dettate dalle vecchiette lavorarono molto di testa loro traducendo gran parte delle fiabe dai dialetti tedeschi, integrando una variante con l'altra, rinarrando dove il dettato era troppo rozzo, ritoccando espressioni e immagini, dando unità di stile alle voci discordanti.

     

    Anche il mio lavoro – prosegue Calvino – è scientifico a metà.

    Proprio come avevano fatto i Grimm, utilizzando come materia prima i testi raccolti in un secolo dagli studiosi di folclore, egli ha iniziato a scegliere dai numerosissimi racconti le versioni più belle, originali e rare; tradurre le versioni scelte dai dialetti in cui erano state raccolte oppure a rinarrarle, cercando di restituire loro la freschezza perduta quando giungevano in una traduzione italiana priva di autenticità; arricchire la versione scelta utilizzando le varianti ma conservandone l'unità; integrare con una mano leggera d'invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati; scrivere in un italiano vivace e flessibile, che affondi le radici nel dialetto e dal dialetto accolga e incorpori le immagini, i giri di frase più espressivi e inconsueti.

     

    Nell’Introduzione a Fiabe Italiane, Calvino racconta anche, con emozione, il suo full immersion nelle fiabe, al termine del quale ha visto confermata l’idea che lo aveva spinto a intraprendere questo viaggio in mondi straordinari e ormai lontani: le fiabe sono vere perché contengono una logica antica, eterna e perduta che l’uomo moderno ha estrema necessità di riscoprire e recuperare.

     

    Per due anni ho vissuto in mezzo ai boschi e palazzi incantati, col problema di come meglio vedere in viso la bella sconosciuta che si corica ogni notte al fianco del cavaliere, o con l'incertezza se usare il mantello che rende invisibile o la zampina di formica, la penna d'aquila e l'unghia di leone che servono a trasformarsi in animali. E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discreto chiaroscuro degli stati d'animo, si vedevano rapite in amori fatati, o sconvolte da misteriose magie, sparizioni istantanee, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elementari di giusto o ingiusto, messe alla prova da percorsi irti d'ostacoli, verso felicità prigioniere d'un assedio di draghi; e così nelle vite dei popoli, che ormai parevano fissate in un calco statico e predeterminato, tutto ritornava possibile: abissi irti di serpenti s'aprivano come ruscelli di latte, re stimati giusti si rivelavano crudi persecutori dei propri figli, regni incantati e muti si svegliavano a un tratto con gran brusio e sgranchire di braccia e gambe. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un'allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Le fiabe sono nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna.


    A titolo di esempio, vi offriamo la lettura di un fiaba della città di Firenze, che si trova nel primo volume di Fiabe Italiane, edizione 1956: La ragazza mela.

     

    C'era una volta un Re e una Regina, disperati perché non avevano figlioli e la Regina diceva: – Perché non posso fare figli, così come il melo fa le mele? 

    Ora successe che alla Regina invece dì nascerle un figlio le nacque una mela. Era una mela così bella e colorata come non se n'erano mai viste. E il Re la mise in un vassoio d' oro sul suo terrazzo. In faccia a questo Re ce ne stava un altro, e quest'altro Re, un giorno che stava affacciato alla finestra, vide sul terrazzo del Re di fronte una bella ragazza bianca e rossa come una mela che si lavava e pettinava al sole. Lui rimase a guardare a bocca aperta, perché mai aveva visto una ragazza così bella. Ma la ragazza appena s'accorse d'esser guardata, corse al vassoio, entrò nella mela e sparì. Il Re ne era rimasto innamorato.

    Pensa e ripensa, va a bussare al palazzo di fronte, e chiede della Regina: 

    – Maestà, – le dice, – avrei da chiederle un favore.

    – Volentieri, Maestà; tra vicini se si può essere utili – dice la Regina.

    – Vorrei quella bella mela che avete sul terrazzo.

    – Ma che dite, Maestà? Ma non lo sapete che io sono la madre di quella mela, e che ho sospirato tanto perché mi nascesse?

     Ma il Re tanto disse tanto insistette, che non gli si poté dir di no per man tenere l'amicizia tra vicini. Così lui si portò la mela in camera sua. Le preparava tutto per lavarsi e pettinarsi, e la ragazza ogni mattino usciva, e si lavava e pettinava e lui la stava a guardare. Altro non faceva, la ragazza non mangiava, non parlava. Solo si lavava e pettinava e poi tornava nella mela.

    Quel Re abitava con una matrigna, la quale, a vederlo sempre chiuso in camera, cominciò a insospettirsi: – Pagherei a sapere perché mio figlio se ne sta sempre nascosto! 

    Venne l'ordine di guerra e il Re dovette partire. Gli piangeva il cuore, di lasciare la sua mela. Chiamò il suo servitore più fedele e gli disse: – Ti lascio la chiave di camera mia. Bada che non entri nessuno. Prepara tutti i giorni l'acqua e il pettine alla ragazza della mela, e fa' che non le manchi niente. Guarda che poi lei mi racconta tutto – (Non era vero, la ragazza non diceva una parola, ma lui al servitore disse così). – Sta' attento che se le fosse torto un capello durante la mia assenza, ne va della tua testa. 

    Non dubiti, Maestà, farò del mio meglio. 

    Appena il Re fu partito, la Regina matrigna si diede da fare per entrare nella sua stanza. Fece mettere dell'oppio nel vino del servitore e quando s'addormentò gli rubò la chiave. Apre, e fruga tutta la stanza, e più frugava meno trovava. C'era solo quella bella mela in una fruttiera d'oro. – Non può essere altro che questa mela la sua fissazione!

    Si sa che le Regine alla cintola portano sempre uno stiletto. Prese lo stiletto, e si mise a trafiggere la mela. Da ogni trafìttura usciva un rivolo di sangue. La Regina matrigna si mise paura, scappò, e rimise la chiave in tasca al servitore addormentato.

    Quando il servitore si svegliò, non si raccapezzava di cosa gli era successo. Corse nella camera del Re e la trovò allagata di sangue. 

    – Povero me! Cosa devo fare? – e scappò. 

    Andò da sua zia, che era una Fata e aveva tutte le polverine magiche. La zia gli diede una polverina magica che andava bene per le mele incantate e un'altra che andava bene per le ragazze stregate e le mescolò insieme.

    Il servitore tornò dalla mela a le posò un po' di polverina su tutte le trafitture. La mela si spaccò e ne uscì fuori la ragazza tutta bendata e incerottata. 

    Tornò il Re e la ragazza per la prima volta parlò e disse: – Senti, la tua matrigna mi ha preso a stilettate, ma il tuo servitore mi ha curata. Ho diciotto anni e sono uscita dall'incantesimo. Se mi vuoi sarò tua sposa. 

    E il Re: – Perbacco, se ti voglio! 

    Fu fatta la festa con gran gioia dei due palazzi vicini. Mancava solo la matrigna che scappò e nessuno ne seppe più niente

     

    E lì se ne stiedero, e se ne godiedero,

    E a me nulla mi diedero,

    No, mi diedero un centesimino

    E lo misi in un buchino                                  (Firenze)

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