Come si è detto, l’aspetto grafico dell’opera dantesca è quello che ci sfugge maggiormente. Possiamo però notare che, almeno nella forma in cui il poema ci è stato tramandato, le grafie latineggianti risultano nel complesso contenute, molto più contenute rispetto a quelle che si trovano in Petrarca (il cui Canzonier, ci è pervenuto nell’autografo).
Petrarca ricorre spesso all’h- etimologica (huom, honore), usa ti, ci in voci come gratia, giudicio, mantiene i nessi -x-, -ct-, -nct-, -pt-, -mpt- (facto, sancto, rapto, ecc.) e opta anche per grafie grecizzanti come th, ph, y (Manni 2003: 194; cfr. anche Maraschio 1993: 165-167). La grafia della Commedia è invece più conforme agli usi grafici antietimologici che si trovano nelle scritture dei mercanti toscani e che la tradizione italiana successiva (grazie soprattutto al modello fornito prima dal Bembo e poi soprattutto dal Vocabolario della Crusca) avrebbe nuovamente adottato, preferendoli alla moda etimologizzante del periodo umanistico (che fu invece accolta in francese; Sabatini 2004). Da questo punto di vista, dunque, il poema dantesco (ma, più in generale, lo stesso fiorentino delle cronache, dei libri dei conti, dei volgarizzamenti, ecc.) appare pienamente “moderno”, a parte qualche particolarità (per es., la resa con -sci- della sibilante palatale sorda di grado tenue come in basciò, documentata tuttora a Firenze, ma poi scomparsa nella pronuncia dell’italiano, per effetto della grafia -ci- che ha influito sulla pronuncia; Loporcaro 2006).
Varie divergenze rispetto allo standard attuale (ma non alla lingua poetica posteriore; Serianni 2009: 76ss.) si hanno nell’uso delle doppie, a volte scempiate per influsso del latino (femina, ecc.), a volte presenti là dove l’italiano di oggi prevede la scempia (etterno). I testi antichi rendono spesso graficamente il raddoppiamento fonosintattico che prevede, in determinate condizioni (per lo più dopo monosillabi forti e parole tronche), la pronuncia come intensa di una consonante a inizio di parola: a casa è pronunciato [a'k:a:sa] e pertanto scritto anticamente accasa, grafia resa nelle edizioni filologiche moderne come a·ccasa.
Naturalmente (come risulta dall’esempio appena citato), la divisione delle parole, l’uso delle maiuscole, i segni di punteggiatura, come pure gli apostrofi e gli accenti che troviamo nelle edizioni dei testi antichi sono dovuti agli editori moderni e sono in parte condizionati alle loro interpretazioni del testo. Così, per es., al v. 3 del canto I dell’Inferno l’ed. Petrocchi reca «ché la diritta via era smarrita», con il ché accentato, interpretato come congiunzione causale (‘perché’); ma potrebbe trattarsi anche di un che “polivalente”, la cui funzione grammaticale «Ã¨ quella di una relazione generica, nella quale prevale ora il dato modale, ora quello spaziale, ora quello temporale; ed è certo un dato della lingua parlata popolare» (Pagliaro 1961; 198). In effetti l’ed. Sanguineti opta per che (cfr. anche Manni 2003: 170-171).