Ben presto sulle pagine del Politecnico si accende la discussione sul rapporto fra cultura e politica e quindi anche fra intellettuali e Partito Comunista. Da una parte la difesa dell'autonomia della cultura e l'apertura alla nuova letteratura americana ed europea, dall'altra la rivendicazione del diritto del movimento operaio a indirizzare la cultura e a farne uno strumento utile a coinvolgere le masse nel processo rivoluzionario diretto dal Partito.
Il 10 ottobre 1946 il segretario del PCI Palmiro Togliatti interviene su Rinascita, settimanale del PCI, affermando che le idee positive e costruttive espresse da Vittorini nel primo numero del Politecnico si erano oggi ridotte a una ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente, incapace di dare un contributo serio e utile al rinnovamento della cultura italiana.
Nella risposta a Togliatti, pubblicata sul numero 35 del Politecnico nel 1947, Vittorini pone una domanda: chi è lo scrittore rivoluzionario? Colui che non asseconda la politica limitandosi a suonare il piffero, a ripetere parole d'ordine; rivoluzionario è lo scrittore che, attraverso gli strumenti della letteratura - sa individuare e comprendere le vere esigenze dell'uomo:
Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie, ma 'diverse' da quelle che la politica pone: esigenze … dell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre 'accanto' alle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali è perché vedo la tendenza a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura di cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.
Anni dopo, in una lettera a Calvino [1], Vittorini spiega che per lui la vera cultura è quella capace di ricercare la verità , senza piegarsi a nessuna esigenza esterna. Questa idea è stata alla base della sua battaglia sul Politecnico:
Nel Politecnico ho tentato di convincere i politici a riconoscere che se una parte della cultura lavora per la civiltà e può, come tale, piegarsi anche alle esigenze politiche, un'altra parte della cultura (la cultura nel suo senso maggiore, e specialmente la poesia, le arti) lavora principalmente per la verità , per la ricerca della verità , e non può dunque assecondare le esigenze immediate della politica senza il rischio di perdere ogni senso e ogni valore.