Ritratto storico di Lorenzo il Magnifico

    Letteratura e teatro

    Il critico letterario Emilio Bigi[1] nella sua Introduzione agli scritti di Lorenzo de’ Medici, sottolinea la singolare difficoltà incontrata fino ad ora dagli studiosi ad orientarsi fra i molteplici aspetti psicologici, culturali e stilistici che sembrano intrecciarsi nell’opera letteraria di Lorenzo de’ Medici. Per questo l’orientamento attualmente condiviso dalla maggior parte della critica è di limitarsi ad indicare alcuni motivi ricorrenti, illustrandone di volta in volta, senza troppe preoccupazioni, la presenza o la compresenza nei singoli scritti.

     

    Ma – si chiede Bigi – converrà proprio accontentarsi di questa soluzione?

    E avanza l’ipotesi che, se non una definitiva risposta almeno qualche ulteriore chiarimento al problema critico possa venire da un tentativo di riesaminare l’opera letteraria del Magnifico da un punto di vista più rigorosamente “storico” di quanto forse finora non sia stato fatto, da una parte mettendola in relazione con la cultura fiorentina contemporanea, dall’altra ordinandola cronologicamente.

     

    Per quanto riguarda le caratteristiche della civiltà fiorentina degli ultimi decenni del Quattrocento – l’età in cui Lorenzo – Bigi fa riferimento agli studi di Eugenio Garin che ne mettono in discussione l’immagine romantica, armoniosa e serena, – ancora in gran parte accettata dagli storici – per proporne una più complessa, caratterizzata da tendenze nuove diverse e cariche di inquietudini:

     

     Proprio in quegli anni , la vigorosa fede nelle possibilità della Virtus contro la Fortuna, il fervido interesse per i problemi della “città terrena”, il senso della stretta connessione tra vita e cultura, gli elementi insomma di quel robusto “umanesimo civile” che in varie proporzioni e gradazioni anima i maggiori pensatori e letterati della prima metà del Quattrocento […] sembrano affievolirsi o piuttosto incrociarsi con un nuovo stato d’animo, in cui prevale invece quasi una sottile sfiducia nell’azione umana, una volontà di distacco dalla vita pratica, una tendenza a cercare nella cultura e nell’arte un separato e sereno rifugio dalle amarezze di tale vita.

     

    Naturalmente, continua Bigi, non si deve ricondurre la civiltà fiorentina del Quattrocento a questo nuovo modo di sentire, ma è importante riconoscerne la presenza in tre grandi personaggi che furono anche i grandi amici e maestri del Magnifico: Marsilio Ficino, Luigi Pulci e Angelo Poliziano. Soprattutto in Poliziano è evidente la tendenza a evadere dalla faticosa realtà quotidiana per rifugiarsi in un mondo ideale, letterario, regno della bellezza e dell’eleganza.

    Quale posizione assume Lorenzo di fronte alla trasformazione che avviene intorno a lui? Per comprenderlo, afferma Bigi, è necessario riflettere sull’idea che il Magnifico ebbe dell’attività politica, a cui la sua vita fu interamente dedicata. Le lettere politiche e i Ricordi  forniscono suggestivi indizi in proposito:

     

    “Il secondo dì dopo la sua morte (di Piero)” egli scrive in una celebre pagina dei Ricordi, “ … vennero… a confortarmi che pigliassi la cura della città e dello Stato… ; le quali cose per essere contro alla mia età e di gran carico e pericolo, mal volentieri accettai e solo per conservazione delli amici e sustanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato: delle quali infino a qui siamo riusciti con onore e grazia, reputando tutto non da prudenza, ma per grazia di Dio e per li buoni portamenti dei mia passati”

     

    Di certo, sostiene Bigi, non furono solo ragioni utilitaristiche e meschine a far rimanere Lorenzo in politica per ventitré anni; tuttavia balza agli occhi che queste affermazioni, anche senza prenderle alla lettera, sono prive dell’entusiasmo, della forza e della fiducia presenti in umanisti come Leonardo Bruni o Coluccio Salutati e mostrano una chiara consapevolezza dei pericoli che la vita pratica porta con sé, delle insidie della Fortuna e dei limiti di ogni intervento umano. Le scelte di Lorenzo in politica interna (eliminare gli ultimi e illusori residui della libertà fiorentina) ed estera (conservare a ogni costo la pace fra gli Stati italiani) rispondono a questa visione del mondo, che influenza anche la sua produzione letteraria:

     

    Ma se si tiene presente il modo con cui Lorenzo partecipa e reagisce, nel campo politico, alla crisi del suo tempo, non è difficile neppure rendersi conto del tono che distingue la sua opera letteraria: dove diremmo (svolgendo soprattutto alcune indicazioni del Fubini[2] che prevalga , analogalmente, uno stato d’animo di adesione disincantata al mondo concreto delle passioni e in genere dell’esperienza pratica quotidiana, uno stato d’animo quindi capace sì di guastarne con saporoso compiacimento la robusta asprezza, ma anche di rifluire, quando più acuto si fa il senso di questa sprezza, in un pessimismo severo e in un’aspirazione, a suo modo viva e sincera, alla “pace” del cuore e dell’intelletto.

     

    L’apprezzamento per gli aspetti concreti, elementari della vita, uniti all’esigenza di prendere le distanze dalla dura realtà e di trovare ristoro in un mondo aristocratico, letterario sono presenti nelle varie fasi della sua produzione, a partire da quella giovanile. In queste prime composizioni, a testi come La Nencia da Barberino, l’Uccellagione di starne, il Simposio, che raccontano in modo colorito e diverto aspetti carnali dell’esistenza (il sesso, la caccia, il vino) se ne alternano altri di argomento filosofico e religioso come l’ Altercazione e i Capitoli o amoroso, come le Rime che rispondono, secondo Bigi, “alla medesima esigenza di separazione dall’aspra realtà della vita quotidiana”.

     

    I sonetti raccolti nel Comento, scritti a imitazione del Petrarca e dello Stilnovo, costituiscono una svolta evidente nell’opera di Lorenzo e coincidono con due eventi significativi della sua vita: la morte di Simonetta Vespucci, a lui molto cara, nel 1476, e la congiura dei Pazzi nel 1478. Scrive Bigi:

     

    In realtà non crediamo di abbandonarci solo a un’ipotesi suggestiva se pensiamo che anche, e forse soprattutto, tali esperienze dolorose e senza dubbio sofferte abbiano contribuito a rendere più acuta nell’animo del Magnifico la nostalgia, già delineatasi nelle rime giovanili, di un appartato e nobile rifugio sentimentale e che appunto nella medioevale tradizione stilnovistica, riconsacrata dal neoplatonismo ficiniano, egli abbia potuto sentire, oltre che lo spunto generico per una “nuova” maniera, anche un aristocratico e astratto mondo letterario da cui trarre opportuni elementi per rendere ancor più gelosamente prezioso e “gentile” il suo antico amore per Lucrezia Donati.

     

    Proseguendo nell’analisi della poetica di Lorenzo, Bigi mette in luce una nuova trasformazione riconoscibile nelle opere composte dopo il 1484 – Corinto; Ambra; Selve; Rappresentazione di San Giovanni e Paolo – e stabilisce una relazione fra questa svolta e il cambiamento avvenuto proprio verso il 1484-1485 nell’azione politica del Magnifico:

     

    Certo è che, mentre da un lato il ritmo di questa azione – dileguatesi le ultime minacce esterne contro Firenze, consolidata la situazione interna, iniziata la politica di equilibrio e di pace – si fa, senza perdere di intensità, meno angosciato e febbrile, più agevole e sicuro (come appare anche dal tono delle lettere contemporanee); parallelamente nelle opere che si collocano con certezza o con molta probabilità dopo il 1484 […] non c’è dubbio che quello stato d’animo che si profilava ancora incerto e secondario nel Comento, si rafforzi e si risolva, più chiaramente, in un’accettazione consapevole e saggia della realtà effettuale nel suo robusto sapore e insieme nei suoi limiti ma inevitabili. Si viene a formare insomma una più matura atmosfera sentimentale in cui i due temi fondamentali di Lorenzo, finora separati, tendono ad avvicinarsi e ad intrecciarsi più strettamente: cosicchè, se torna nel Corinto e nell’Ambra l’antica simpatia per le passioni e gli atteggiamenti rudi ed elementari, essa acquista un accento meno allegro ed ironico, più pensoso e serio; mentre d’altro lato il pessimismo e la correlativa aspirazione alla pace del cuore, quando riaffiorano, soprattutto nelle Selve, non si volgono come nel passato a soluzioni ascetiche o aristocratiche, sì piuttosto al vagheggiamento, pur contemplato con occhio chiaro e disilluso, di semplici e intensi affetti, di un idillio umanamente terrestre e vigoroso.

     

    Secondo Bigi, quindi, la scelta del Magnifico di imitare i modelli classici nelle ultime opere va letta in rapporto al mutamento che avviene complessivamente nella sua vita, a livello pubblico e nel sentire privato. Le Selve e la Canzona a Bacco sono i frutti più interessanti e maturi di questo periodo:

     

    La prova […] spiritualmente e artisticamente più seria e impegnativa di questa fase (e forse di tutta l’opera laurenziana) sarà da vedere nelle Selve, dove, […]al pensieroso riconoscimento della dura asprezza della vita e delle passioni […] si intreccia […] un caldo sogno di amori, di esistenze, di paesaggi umanamente concreti e vitali. Qui pure è soprattutto dalla cultura classica che il Magnifico trae un positivo aiuto […]. Nascono così, da un lato, con il soccorso soprattutto di Virgilio e di Ovidio, le personificazioni della Gelosia e della Speranza e i miti di Prometeo e Pandora.

     

    La Canzona a Bacco […] non è un “canto carnascialesco” vero e proprio, sì invece un’altra espressione – ottenuta ancora attraverso la contaminazione, qui particolarmente sapiente e fusa, di ricordi classici e di atteggiamenti e modi realistici – di quello stato d’animo robustamente e pensosamente idillico che ispirava le più belle stanze delle Selve.



    [1] Emilio Bigi (1916-2009), docente di letteratura italiana nelle Università di Trieste Pisa e Milano, è stato condirettore del Giornale storico della letteratura italiana.

    [2] Mario Fubini (1900-1977) è stato un critico letterario italiano.

     

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