Si chiamano semiconsonanti i suoni che sono a metà strada tra le vocali e le consonanti. Si tratta, in pratica, delle vocali i e u pronunciate stringendo ancor più il canale orale: si ottengono così la semiconsonante palatale che si indica col segno /j/ (detto jod), e la semiconsonante velare che si indica col segno /w/ (detto uau).
Le semiconsonanti hanno valore fonematico, anche se si possono reperire pochissime coppie minime rispetto alle vocali corrispondenti: ad es. spianti /'spjanti/ (2a persona singolare del presente indicativo del verbo spiantare ‘sradicare’) e spianti /spi'anti/ (participio presente plurale del verbo spiare ‘osservare senza essere visti’); la quale /la'kwale/ (pronome relativo femminile) e lacuale /laku'ale/ (relativo a un lago, lacustre).
Le semiconsonanti si trovano esclusivamente nei dittonghi: questi sono combinazioni di una semiconsonante (sempre atona) e di una vocale (che può essere tonica o atona).
Sono dittonghi ia, ie, io, tu (ad es. nelle parole piano, vieni, piove, piuma) e uà , uè, ui, uo (in guardo, guerra, guida, buono).
I dittonghi nei quali la semiconsonante precede la vocale si chiamano ascendenti.
Quelli nei quali si trova invece prima la vocale, si chiamano discendenti: sono ai, ei, oi, au, eu (ad es. in sai, sei, noi, causa, reuma).
La i e la u dei dittonghi discendenti sono più vicine alle pure vocali e vengono perciò chiamate anche semivocali.
La lingua italiana conosce anche trittonghi, costituiti da una i e una u semiconsonantiche, una vocale e una semivocale (tuoi, buoi, guai, miei), oppure da due semiconsonanti e una vocale (aiuola).
Il dittongo (ascendente o discendente) e il trittongo formano una sola sillaba; gli elementi che li compongono si possono però separare con uno sforzo di pronuncia, e in tal caso la semiconsonante o la semivocale diventa una vocale e fa sillaba per suo conto: mà -i, tu-òi. Questa separazione si chiama dièresi.
Nelle parlate meridionali, come il napoletano si tende a vocalizzare la semiconsonante nei dittonghi ascendenti: /'buono/
Alla descrizione del dittongo va subito affiancata quella dell’iato, perché spesso c’è confusione tra le due cose. Mentre il dittongo, come abbiamo visto, è l’unione di una semiconsonante e di una vocale che formano nell’insieme una sola sillaba, l’iato è la semplice vicinanza di due vocali che restano staccate, formano cioè due sillabe diverse (iato, dal latino hiatus, vuol dire ‘separazione’). Si ha l’iato:
- quando non sono presenti né la i, né la u: a│ereo, po│eta, sa│etta, le │one, ca │ os;
- quando la i o la u sono toniche: si│a, du│e, vi│a, Ca│ino, pa│ura (e anche in vi│ale, pa│uroso, e in sci│are, perché si avverte la derivazione dalle forme con i e u toniche);
- dopo il prefisso ri- (ri│esco, ri│apro) e dopo bi- e tri- (bi│ennio, tri│ennio), perché in questi casi si avverte ancora l’autonomia del primo elemento.
Nella poesia per ragioni metriche (computo delle sillabe) un iato può formare unica sillaba (sineresi) e un dittongo può essere scisso e formare due sillabe (dieresi). La dieresi si marca con due punti sovrapposti alla semiconsonante o semivocale. Un esempio di entrambi i fenomeni è il quinto verso del sonetto di Ugo Foscolo Alla sera: e quando dal nevoso aere inquïete.