L’interesse di Mariano Fortuny per la moda può essere inserito in quel filone dell’”abito d’arte” che dal 1860 aveva attratto l’interesse degli artisti ed era diventato popolare nei circoli intellettuali, amanti delle pure forme naturali, dei materiali di qualità , del rispetto per le lavorazioni artigianali, ma anche rafforzato da ideali sociali che si legano alla riforma dell’abbigliamento. Primi fra tutti la Confraternita preraffaellita, con la rivalutazione delle arti medievali e una visione della donna ispirata all’”amor cortese”, tradotto dalla sensualità estetizzante della cultura vittoriana, che allungherà la sua influenza in tutto il decadentismo europeo, fino a d’Annunzio.
"Ella era avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garza orientale che il tintore alchimista Mariano Fortuny immerge nelle conce misteriose dei suoi vagelli rimosse col pilo di legno ora da un silfo ora da uno gnomo e le ritrae tinte di strani sogni e poi vi stampa co’ suoi mille bussetti nuove generazioni di astri, di piante di animali. Certo alla sciarpa d’Isabella Inghirami egli aveva dato l’impiumo con un pò di roseo rapito dal suo silfo a una luna nascente" (Gabriele d’Annunzio, Forse che sì forse che no, 1910)
Queste poche righe condensano alla perfezione tutta l’essenza dell’arte e del “metodo” di Fortuny, un metodo che d’Annunzio conosceva bene, essendogli amico dall’arrivo a Venezia. Li accomunava l’amore per il teatro a partire da Wagner; e furono compagni di tanti esperimenti e progetti, sulla scena, sui costumi e soprattutto sulla luce: quel mirabile elemento antico come il mondo, da cui è nata la vita, ora è anch’esso un soggetto riproducibile e dagli infiniti utilizzi. Come un’ossessione le varie arti, non meno della scienza, hanno cercato di indirizzarla: così il curioso Mariano da pittore ne declina il colore, come ci dice il poeta, o la cattura con la sua Kodak (più di 10.000 lastre fotografiche su vetro esistenti); da scenografo sperimenta l’illuminazione in teatro; da costumista e creatore di abiti la lascia vibrare in mille piegoline o nei riflessi oro e argento della stampa su tessuto. Dopo il suo progetto del 1901 (non realizzato) per una Francesca da Rimini, disegnerà ancora per la Duse i costumi della Donna del mare (1904), mentre l’attrice acquisterà i suoi pepli da Babani, importatore di merce orientale e distributore esclusivo di Fortuny a Parigi.
L’attitudine teatrale insita nelle sue opere attirò anche il mondo della danza: è noto che Ruth Saint-Denis e Isadora Duncan utilizzarono le sue tuniche, ma è ipotizzabile anche una relazione con Loïe Fuller, le cui “danze di luce” avevano il loro punto di forza proprio nell’effetto “luministico” dei tessuti.
Ma ciò che ha più influito sulla moda è quel modo di trattare i tessuti che, come ci indicano le parole di d’Annunzio, univa l’antica civiltà e la nuova: le stampe serigrafiche alla gelatina, con ricorrenti motivi in oro ispirati ai disegni medievali e orientali, hanno orientato il lavoro di Maria Monaci Gallenga; la tecnica del plissé, detto appunto Fortuny, che si ispirava alle koré della classicità , brevettata nel 1909 insieme al suo “capolavoro couture”, il Delphos (lunga tunica cilindrica, essenziale, con maniche corte e stretta in vita da una cordicella, ispirato all’antica Grecia), è stata poi utilizzata da uno dei più geniali creatori di moda italiani, Roberto Capucci, che ne ha esplorato le possibilità nei suoi abiti-scultura, ancor prima che lo stilista giapponese Issey Miyake esordisse con la collezione “Pleats Please” (1993).