Nel Decameron[1] il linguaggio e le forme narrative aderiscono di volta in volta al contenuto, cioè variano a seconda del tema trattato (tragico, comico, realistico), delle caratteristiche dei personaggi, degli ambienti e delle situazioni[2]. Proprio attraverso la varietà di registri e di intonazioni, Boccaccio raggiunge quell’eleganza formale, fatta di armonia e di misura, che è stata lo scopo di tutta la sua ricerca stilistica e dell’attività di prosatore.
Il linguaggio, in particolare, rispecchia non solo l’argomento, ma anche la condizione sociale e la provenienza geografica dei protagonisti, perciò comprende parole dialettali provenienti dalle varie regioni d’Italia o derivate dal latino, dal greco, dal francese, dal provenzale, quando le storie sono ambientate in quei luoghi; altri termini sono propri dell’attività mercantile, dell’agricoltura, del diritto, della Chiesa; ricorrono infine, in gran numero, le battute, i motti, i doppi sensi, presi dalla lingua popolare parlata o creati dallo stesso Boccaccio.
[1] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956. In quest’opera dedicata alla realtà rappresentata nella letteratura, il filologo tedesco assegna a Boccaccio un ruolo di grande importanza per aver descritto, attraverso la pluralità dello stile e del linguaggio, una nuova visione dell’uomo, più laica e terrena.
[2]. Vittore Branca nel suo Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 1981, definisce espressivismo questo tipo di linguaggio.