Il critico Giuliano Manacorda mette in luce il legame, il filo rosso che unisce due aspetti apparentemente lontani della poetica di Calvino: l'osservazione della realtà del suo tempo e l'esplorazione di mondi fantastici e lontani:
Ma qual è, infine, il senso di tanto favoleggiare di Calvino? Ce lo dice lui stesso nell'articolo Il midollo del leone apparso nel giugno 1955 sulla rivista Paragone: ‘Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza muovendosi in una natura o in una società spietata’.
La favola per Calvino è dunque il mezzo più semplice per richiamare i momenti essenziali della vita dell'uomo: la solitudine, la paura, la lotta, la liberazione, sempre nuovi per il mutare della giungla paurosa e dei mostri che la popolano , ma sempre in qualche modo simili come lo scontro del bene e del male, del progresso e della reazione. A quelle favole è perciò sempre connessa... una intenzione morale, che Calvino afferma esplicitamente quando dice di credere ‘in una in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione’.
[Tratto con adattamenti da: Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti,1972]