Questa poesia, forse la più nota di Leopardi, dà forma e concretezza alla sua riflessione sul concetto di indefinito come fonte di felicità e alla ricerca di un linguaggio che abbia come caratteristica il vago, capace di dare spazio all’immaginazione. Seduto sulla sommità di un colle, il poeta, grazie alla capacità di immaginare, supera i confini del tempo e dello spazio e si abbandona alla dolce sensazione di far parte dell’universo infinito.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
L'Infinito è composto da 15 versi endecasillabi. Le parole utilizzate, per significato, forma e suono, contribuiscono a suscitare quelle idee vaste e indefinite a cui Leopardi aspirava[1].
Sono frequenti i termini che indicano lontananza o mancanza di confini nello spazio (ultimo orizzonte, interminati / spazi, immensità ) e nel tempo (sempre, l'eterno, morte stagioni) oppure solitudine e silenzio (quiete, sovrumani / silenzi, infinito silenzio); gli aggettivi dimostrativi definiscono di continuo lo spazio reale (quest’ermo colle, questa siepe, queste piante, questa voce) in contrapposizione allo spazio in cui si muove l’immaginazione (quello / infinito silenzio), mentre nell’ultimo verso realtà , immensità e infinito naufragano e si fondono insieme nella mente del poeta (questa immensità , questo mare).
Le parole che si riferiscono ad aspetti concreti del paesaggio sono usate al singolare (colle, siepe), quelle che rappresentano elementi astratti al plurale, e sono accompagnate da aggettivi che sottolineano l’impossibilità di misurarli e contenerli (interminati / spazi, sovrumani / silenzi).
La vocale aperta “a”, spesso segnata dall’accento tonico[2], compare soprattutto nelle parole che evocano l’idea di infinito (tanta parte, interminati, sovrumani, profondissima, spaura) e in quelle che definiscono lo spazio, creando l’effetto di un’eco che dilata le distanze (questa, quella, guardo, mirando, annega, naufragar, mare); per esaltare la tonalità aperta, a queste parole ne vengono alternate altre in cui prevale la vocale chiusa “o” che crea un effetto di contrasto (profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura).
Anche la presenza di gruppi consonantici in cui figura una nasale[3] (sempre, ermo, tanta, vento), spesso inseriti in parole costituite da molte sillabe (profondissima, interminati, sovrumani) contribuisce a dare corpo ai suoni e a dilatare il verso; spesso la presenza dell'enjambement rafforza l'effetto anche a livello sintattico (Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio).
[1]Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell'infinito, Il Mulino, Bologna, 1985.
[2] In ogni parola che pronunciamo c’è una sillaba sulla quale marchiamo maggiormente il tono di voce. Questa maggiore intensità si chiama accento tonico.
[3]Le consonanti nasali (“m” e “n”) hanno questo nome perché il suono che serve ad articolarle è dato dalla risonanza dell'aria nelle fosse nasali.