Conversazioni in Sicilia: il mondo offeso e la lettura lirica della storia

Letteratura e teatro

Secondo Vittorini (e anche secondo Pavese e Calvino) per raccontare verità profonde e universali è necessario usare un linguaggio adeguato. Un linguaggio solamente realistico - spiega lo scrittore nella Prefazione al Garofano rosso del 1948 - non riesce ad essere musica e ad afferrare la realtà come insieme anche di parti e di elementi in via di formazione. […] E’ come se ormai fosse un linguaggio ideografico. Non risponde più, vale a dire, al compito proprio di un linguaggio poetico: il quale è di conoscere e di lavorare per conoscere quanto, della verità, non si arriva a conoscere col linguaggio dei concetti.

 

E’ proprio questa lettura lirica della realtà e della storia, come la definisce il critico Giuliano Manacorda, a rendere le opere di Vittorini tanto affascinanti e universali. La sua poetica raggiunge il massimo dei risultati con Conversazioni in Sicilia [1]. Ne è un valido esempio la pagina in cui Silvestro Ferrauto, il protagonista, poco prima della sua partenza dalla Sicilia incontra l'arrotino Calogero e il sellaio Ezechiele. Ezechiele – che Vittorini definisce l'uomo – spiega il perché della sofferenza che accomuna tutti gli uomini. Il linguaggio usato ha come caratteristiche la ripetizione (offeso) e l'anafora (il mondo), i dialoghi sono costituiti da battute brevi ed essenziali, simili a sentenze o passi della Bibbia.

 

Gli hai detto come noi soffriamo? – chiese.
- Avevo cominciato a dirglielo, -l’arrotino rispose.
E l’uomo Ezechiele: – Bene, digli che non soffriamo per noi stessi.
- Questo lo sa, – l’arrotino rispose.
E l’uomo Ezechiele: – Digli che non abbiamo nulla da soffrire per noi stessi, non malanni sulle spalle, né fame, e che pure soffriamo molto, oh molto!
E l’arrotino: – Lo sa! Lo sa!
E l’uomo Ezechiele: – Domandagli se davvero lo sa.
E l’arrotino a me: – Vero che lo sapete?
lo assentii col capo. E l’uomo Ezechiele si alzò in piedi, batté le mani, chiamò: – Nipote Achille!
Dal fitto dei finimenti si affacciò il ragazzo che ci aveva urtato nel corridoio. – Perché, – l’uomo Ezechiele gli disse, – non stai qui ad ascoltare le parole nostre?
Il ragazzo era molto piccolo, con riccioli biondi come lo zio. – Ascoltavo, zio Ezechiele, – rispose.
L’uomo Ezechiele approvò e di nuovo si rivolse all’arrotino.
- Dunque, – disse, – il vostro amico sa che noi soffriamo per il dolore del mondo offeso.
- Lo sa, – l’arrotino disse.
L’uomo Ezechiele si mise a riepilogare: – Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e cosi il mondo continua ad essere offeso.
Si guardava intorno parlando, e i suoi occhi piccini si chiusero nella tristezza, poi cercarono vivamente l’arrotino. – E hai detto al nostro amico, – egli disse, – che io scrivo sui dolori del mondo offeso?
C’era infatti una specie di quaderno sul minuscolo tavolo, e un calamaio, una penna.
- Glielo hai detto, Calogero? – egli disse.
L’arrotino rispose: – Stavo per dirglielo.
Ed egli disse: – Bene, al nostro amico puoi dirglielo. Digli che come un eremita antico io trascorro qui i miei giorni su queste carte e che scrivo la storia del mondo offeso. Digli che soffro ma che scrivo, e che scrivo di tutte le offese una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere.
- Coltelli, forbici, picche, – gridò l’arrotino.
E l’uomo Ezechiele posò una mano sulla testa del ragazzo, indicò me. – Vedi questo nostro amico? ¬disse. – Come tuo zio, egli soffre. Egli soffre per il dolore del mondo offeso. Impara, nipote Achille, e ora bada tu alla bottega mentre io accompagno Calogero e lui a bere un bicchier di vino da Colombo.
(Cap.XXXV).

 

Nella nota posta a conclusione del romanzo Vittorini afferma che il protagonista di questa Conversazione non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura la Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela.

 

A commento della nota, Giuliano Manacorda scrive:

 

[…] dunque quando pare che il suo sguardo più sia puntato su una situazione precisa, proprio allora Vittorini ci mette  in guardia dall'equivocare, dal rimpicciolire i termini del suo concreto furore: è la generale condizione umana quella che ormai lo muove ed interessa, la condizione umana sul versante dell'offesa, del dolore, dell'ingiustizia.



[1] Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti, 1967

 

 

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