Con la formazione dell'impero romano il latino si era diffuso in un territorio vastissimo, dalle coste atlantiche al Caucaso e dal Sahara al Mare del Nord. Quando la potenza di Roma declinò e s'infranse l'unità politica dell'impero, in molte regioni di questo – le coste africane, l'Asia Minore, gran parte della penisola balcanica, le isole britanniche: territori meno latinizzati o con forte presenza del greco o massicciamente invasi da altri popoli – il latino si estinse. Si conservò invece definitivamente dove si era ben radicato, trasformandosi però col tempo e differenziandosi localmente, per effetto dell'uso vivamente parlato, non più frenato dall'istruzione scolastica e dalla cultura scritta, che erano dappertutto in decadenza. Già nel secolo VI d.C. il latino parlato aveva generato ormai diversi "volgari".
Il processo di frammentazione sarebbe andato sempre più avanti, se non fosse intervenuto anche un nuovo corso di aggregazione e coesione linguistica all'interno di singoli spazi etnico-politici. Tra l'VIII e il IX secolo, quando in Europa si era stabilizzato il nuovo assetto dei popoli latini e germanici, ebbe inizio l'elaborazione delle nuove lingue dell'uno e dell'altro ceppo. Nei territori latini cominciò allora a costituirsi, attraverso un progressivo recupero dell'antica cultura classica e l'acquisizione di elementi dalle lingue dei popoli sopraggiunti, l'uso scritto dei volgari, premessa alla formazione delle vere e proprie lingue neolatine. Entro la fine del secolo XIII (con l'eccezione del rumeno, che tardò di altri due secoli) queste si erano pienamente formate ed erano già dotate di importanti letterature, espressione delle nuove civiltà e "nazioni" sorte sul terreno dell'antico dominio di Roma.